20.4.04

[1996#04] didattica

Note per una didattica contemporanea del progetto grafico
La straordinaria, epocale trasformazione “surmoderna” che attraversa tutte le forme e le espressioni culturali contemporanee, mutando e ibridando prepotentemente assetti mentali e concettivi consolidati nella cultura industriale moderna, obbliga a ripensare e ricollocare in termini innovativi le varie componenti di una scuola quale l’Isia, per non rischiare una deriva esiziale per l’istituzione e i suoi utenti. La formazione degli studenti deve - pena la loro esclusione dal mondo reale della professione - fare i conti con la mutazione radicale degli strumenti di progetto, e dunque di ideazione/produzione, che è una mutazione culturale, innanzitutto, ove il ruolo della “comunicazione” è (assieme ambiguamente e certamente) centrale. Ritengo perciò necessario e urgente fornire agli studenti fin dal primo anno una preparazione che rafforzi potentemente sia l’approccio critico-interpretativo, sia la dotazione metodico-strumentale. In altri termini, una scuola che voglia misurarsi con il contemporaneo, e non con le banalità delle mode o la novità incessante del consumo delle immagini, dovrà dare ai propri studenti i mezzi per
• affrontare la storia, la natura e i metodi di costruzione del fenomeno comunicativo nelle sue interazioni complesse, tanto testuali che iconiche, sullo sfondo delle teorie che ne hanno informato l’evoluzione
• apprendere e utilizzare correntemente la lingua inglese, sia parlata che scritta
• consolidare un bagaglio critico di lettura-interpretazione nei confronti dell’immaginario visivo, con opportune metodologie di indagine comparativa
• utilizzare correttamente e senza ansie apocalittiche il computer per tutto il cursus studiorum, sino a raggiungere livelli di assoluta padronanza dello strumento
• possedere dei rudimenti di informatica applicata, per essere in grado di gestirne almeno i fondamenti teorici
• sapersi confrontare progettualmente con la sfida più pressante del contemporaneo: il passaggio dalla bidimensionalità alla virtualità polidimensionale - ovvero l’integrazione tra testo, immagine fissa e in movimento, suono, che perimetra quanto chiamiamo “multimedialità”, nelle sue forme attuali di distribuzione (cd-rom e rete), in vista della prevedibile integrazione “domestica”
• affrontare con cognizione di causa e di metodo il disegno delle interfacce, settore sempre più determinante nel campo della progettazione degli artefatti comunicativi e dell’ergonomia cognitiva
• privilegiare l’analisi, lo studio e la predisposizione al progetto di Information Design, particolarmente nel campo dell’immagine pubblica, collettiva, sociale, che nella situazione del paese è sia una necessità etica che una opportunità futura di non poco conto
• col fine ultimo di indirizzare a una solida, verificabile, rigorosa cultura del progetto, maturata nel confronto con le strutture produttive (stages e workshop con aziende, enti e istituzioni, pubbliche e private, per l’approntamento di soluzioni sperimentali).
Si tratta quindi di impostare, senza troppi ritardi, data l’obiettiva pressione delle trasformazioni già avvenute e ancora in atto, una strategia didattica che prepari alla ideazione concreta e materiale di metodi, sistemi e pratiche atte a rispondere in termini appropriati alle domande espresse dalle attività che gli studenti intendono svolgere professionalmente e a cui la scuola deve formarli con sereno coraggio.

[nota programmatica per l’Isia di Urbino]

19.4.04

[1996#03] sughi e sapori

Le pagine di questo volume raccolgono una originale, umorale e trasversale antologia di lavori di un selezionato stormo di grafici italiani, tarata campionatura di tutte le generazioni attive sul campo, dai maestri venerati ai protagonisti, dai deuteragonisti agli antagonisti novissimi, perfino fors'ancora acerbi, in una discriminante collegialità, tutt'altro che ecumenica, come compete a una serrata ricognizione (auto)critica. A ben vedere, si è di fronte, infatti, a una galleria di autoritratti, si scorre un album di autoscatti: necessario algido frantumarsi di uno specchio virtuale e onnicomprensivo della situazione di questo variegato settore di competenze progettual-creative. Non è forse ancor tempo di bilanci, se non sommariamente parziali; invece di un atlante, dei portolani locali, degli itinerari, ancor meglio: delle mappe mentali. Impervia alle panoramiche grandangolari, la trama del paesaggio della grafica italiana si tratteggia così in una confusa cangiante sfumata eterogenea restituzione attraverso istantanee in posa. Il profilo e i dettagli, il rilievo e le sezioni, le luci e la disposizione di scena, le "immaginarie" complessioni (aspre o zuccherine, incipriate o ruvide a pelle, gigolò o impettite, scicchettone o minimal, espettoranti o essudative, galanti o sgarbate, superbe o accattivanti, io c'ero già o ci sono anch'io) che ognuno offre di sé nel mettersi in pagina, secondo autonomi principi di rappresentazione pur entro omogenei spazi discorsivi, si susseguono in sequenze autonome di fotogrammi, a comporre un film dal montaggio a scatti. Si procede in una narrazione visiva irrequieta e disturbata di a-solo, orchestrata lateralmente e senza sceneggiatura, che alla fine condensa comunque un'immagine latente e problematica della grafica italiana. Ovvero che la sommatoria in progressiva accelerazione dei processi di trasformazione dell’attività progettuale in questione, ove si sono coagulate negli ultimi anni interazioni estremamente complesse (dalla omologante competitività globale della comunicazione a un iperbolico irrefrenabile consumo planetario di immagini fino alla epocale catastrofe recente del digitale), non consente più di parlare al presente di grafica “italiana” in modo ingenuo, e forse neanche di grafica, in termini così generici. Bisogna convenire infatti che il termine “grafica” ha raggiunto un’ampiezza di accezioni così vasta da renderlo profondamente ambiguo, il che non è necessariamente un disvalore; certo è che lo statuto di autonomia ormai conseguito sul campo da questa disciplina si è accompagnato a una tale diversificazione delle sue prestazioni da far sì che sia almeno problematico includervi indifferentemente gli artefatti comunicativi che gli si attribuiscono. Il problema non è nominalistico ma sostanziale, sia per la ridefinizione (assidua quanto incerta) delle professioni contemporanee, sia nella mutazione incessante del profilo di un mestiere sottoposto a ibridazioni e germinazioni continue. Dunque, l’antologia ci interroga, prima di tutto, sul senso della compresenza di artefatti comunicativi difformi, distanti, disomogenei - senza nulla togliere al valore delle pluralità espressive e delle ricerche dei singoli, felicemente e necessariamente divergenti - piuttosto che su omogeneità fortuite. Parrebbe però che (riferendosi alla questione di un spazio “italiano” nella grafica) sia venuta anche a mancare una netta, immediata delimitazione geo-culturale e un’area programmatica di ricerca linguistica, insomma quel riconoscibile confinamento nazionale o stilistico, quel contorno che consentiva di parlare non a sproposito, ad esempio e a piacere, di grafica “svizzera” o “costruttivista”, con tutti i limiti di questa e di qualsiasi etichetta. Dalla fine del secolo scorso, attraverso le esperienze storiche di varie generazioni di grafici (ove non sono mancati certo grandi maestri di livello internazionale) fino alle soglie degli anni settanta, lungo l’arco di un secolo almeno, la “grafica italiana” ha saputo costruire e mantenere delle proprie identità, talora molto forti e localizzate. Ma l’impressione attuale di sradicamento non è che un effetto superficiale: al fondo, dissimulati, permangono tratti comuni, ancora si scorge un’identità soffusa e autoctona. È innegabile infatti riconoscere in queste pagine, al di là delle costruzioni di immagini di ognuno, almeno due moventi “italiani”: sia il policentrismo proprio del Bel Paese, in ogni sua manifestazione culturale (con la feconda dialettica di scambi, e ritorni, tra centro e periferia che ne è sempre conseguita); sia l’attrazione fatale per una forma di idiosincratica progettualità, per una spesso fumosa ma sintomatica “cultura del progetto” grafico che rivela la forte, permanente influenza (se si vuol riflessa, indiretta, mediata o pur solo implicita) delle facoltà di architettura, di pari passo con l’assenza pressocché totale di scuole specifiche, nella formazione di buona parte dei nostri grafici. Autodidatti perlopiù, dunque, tesi a reinterpretare le esigenze più disparate che vengono loro proposte dai committenti tramite strumenti, teorici e pratici, acquisiti sul campo, con la duttile capacità di adattamento, ripresa, appropriazione, e con la flessibile intuitività che qualifica le migliori imprese del paese. Il disinteresse pubblico (salvo lodevoli rarissime eccezioni), la feroce distanza delle istituzioni e la conseguente, grave mancanza di diffusione di una cultura grafica definiscono oggi un assetto peculiare del lavoro grafico nel nostro paese, che lo relega spesso a compiti marginali, a un ruolo decorativo se non esornativo. La sempre più critica funzione della “progettazione” grafica in ogni comparto sia della produzione sia dei servizi sia della vita associata nel mondo contemporaneo sembrano sfuggire alla percezione collettiva, annullando il riconoscimento di potenzialità eccezionali per la società e i singoli, per il miglioramento dell’ambiente comunicativo, la gestione delle risorse specifiche, il controllo di una ormai devastante visual pollution nel sistema globale dei media. Al contempo, questo ritardo, questa difficoltà offre, a suo modo, uno spiraglio per guardare al futuro come a una possibilità da giocare, ancora aperta, difficile da transitare ma non impossibile da indirizzare. Sul piatto della grafica nostrana ai più pare ormai difficile trovare qualcosa di diverso da hambuger e patatine, tranci di pizza, un po’ di nouvelle typographie o qualche stantio piatto freddo: le trattorie hanno chiuso, per far posto a hostarie e a pub, a paninoteche e a fast-food. Se fosse così, bisognerebbe accettare senza nostalgie inutili che, tant’è, questo è il cibo che tocca mangiare.Il tentativo e l’ambizione di questo volume è mostrare come, nonostante tutto, sughi e sapori veri invece non manchino affatto oggi. Si può e si deve guardare ancora con fiducia alle prospettive straordinarie di questo mestiere, a patto di rispettare una condizione antica: nec flere nec indignari sed intelligere.

18.4.04

[1996#02] zuppa digitale

Zuppa digitale è il brodo primordiale della cultura contemporanea, la ribollita di una trasformazione radicale dei modi di conservazione, trasmissione e produzione dei saperi, dentro il grande calderone della comunicazione umana. Se siamo qui, è perché vorremmo saperne di più, ambiremmo a capire meglio cosa bolle in quella pentola, da parte di chi sta cucinando abilmente questa zuppa, preparando gli ingredienti e sperimentando i sapori in piatti appetibili che ne mettono alla prova delle ricette particolari, i cd-rom. Io vorrei proporre un breve spunto introduttivo, un quadro (certo non l’unico) entro cui è possibile collocare l’apparizione, la diffusione del digitale; un accenno, uno scorcio rapidissimo che si affida in qualche modo alla storia, che sempre dal presente è costretta a rivolgersi indietro, per interrogarsi sul senso di quanto accade. Molti parlano, per il presente, di surmoderno, come di un’era di eccesso e di dispersione, di accelerazione del tempo e di contrazione dello spazio, di perdita delle “cornici” entro le quali eravamo abituati a collocare i saperi e le pratiche. Oggi siamo, in altre parole, possiamo riconoscerlo tutti sinceramente, credo, di fronte a una straordinaria confusione: con-fusione culturale, nel senso proprio e intimo di fondersi insieme, di mescolamento, di ibridazione, di meticciamento, di trasfusione e di trasmigrazione, di cui non riconosciamo ancora il verso e gli indirizzi, che ancora non comprendiamo appieno ma che avvertiamo, giorno dopo giorno, agire in ogni campo dell’attività umana. Non si tratta, però, semplicemente di una questione di tecnologia, non è l’avvento atteso o inatteso del digitale a creare preoccupazioni apocalittiche o attese messianiche; ciò che è estremamente interessante, a mio avviso, sono le conseguenze di un passaggio nella tecnologia già avvenuto o, almeno, così avanzato e espansivo da non concedere troppi dubbi sulla sua crescente, ineluttabile pervasività e invasività. Ribollita, ho detto, però, iniziando a parlare: perché di conservazione, trasmissione e produzione dei saperi umani pur sempre si tratta; dunque, di cosa non nuova. Ormai è opinione diffusa, anzi direi concorde, non solo in sede scientifica, è insomma ampiamente condivisa l’idea che gli strumenti della comunicazione, i media attraverso cui gli uomini comunicano, influenzino direttamente il modo stesso di pensare degli uomini, cioè definiscano i caratteri propri delle società umane, che -come ha scritto Marshall MacLuhan- “sono sempre state plasmate più dalla natura dei media attraverso i quali gli uomini comunicano che non dal contenuto della comunicazione”. Se questo è vero, per comprendere il digitale, cioè il presente, è utile forse guardare indietro, alle trasformazioni epocali della comunicazione che ci hanno preceduto. Lasciando necessariamente da parte il problema delle origini o quanto meno dell’evoluzione del linguaggio, dell’emissione organizzata di suoni articolati significanti in una lingua parlata, e dunque il tema delle culture orali (situazione difficile anche solo da immaginare per noi, abituati alla parola resa visibile e riproducibile, quando invece il senso principe era l’udito, l’orecchio, e l’ascolto il centro, la fonte del sapere), dobbiamo ricordarci che le grandi trasformazioni storiche della tecnologia della comunicazione umana sono state in realtà poche: la scrittura nel IV millennio aC (cultura chirografica) “La scrittura -che secondo Ong- ha trasformato la mente umana più di qualsiasi altra invenzione” seimila anni fa, ma se ci riferiamo all’alfabeto che usiamo, diciamo 3500; la stampa alla metà del 400 (cultura tipografica), quella che ancora domina e a cui siamo avezzi, mentalmente, vecchia di soli cinquecento anni; l’elettricità/elettronica del passato prossimo, dal telegrafo alla radio fino alla televisione, tutte tecnologie legate a supporti analogici, materiali, fisici, atomici, per dirla con Negroponte, a cui credo si debba aggiungere oggi la discontinuità, la frattura del digitale, incarnato, reso visibile nel computer e nel monitor, il digitale che si fonda sull’immaterialità relativa dei bits, sulla riduzione estrema delle complessità della comunicazione/informazione a una dualità elementare (1/0, acceso/spento per dirla con analogie); ma un digitale che sembra decisamente in grado di restituirci superiori complessità di comunicazione/informazione, attraverso il sovrapporsi di strati, di meccanismi di interfaccia, di operazioni di traduzione di quegli stati elementarissimi binari in flussi strutturati per la umana comprensione, di generazione di interrelazioni potenti, quantitativamente e qualitativamente di dimensioni sconosciute, inedite, inesplorate ancora appieno. Conseguenza maggiore, principale di questo succedersi stratificato e sempre più rapido di media, di strumenti di comunicazione, è stata la possibilità di una circolazione sempre più veloce e a costi sempre minori dell’informazione, fino all’eccesso e alla dissipazione feconda e straripante (che diviene problema in sé) del nostro confuso surmoderno.
Vorrei concludere con un paragone, per avvicinarci ai temi della giornata, da prendere con le debite cautele, ma che ritengo utile. In fondo, è come se fossimo nel 1460 circa; Gutenberg aveva realizzato il primo libro a stampa da cinque anni, più o meno; non sapeva cosa stava facendo, dal nostro punto di vista, ovvero che stava cambiando il modo di pensare, mutando i modi di conservazione, trasmissione e produzione dei saperi. Non poteva saperlo, è destino comune alla comparsa dei nuovi media (la radio doveva servire la voce, ma è finita per distribuire il suono; e non diversa è stata la sorte del telefono, rispetto alle intenzioni degli inventori). Gutenberg voleva trovare il mezzo di realizzare una scrittura artificiale, voleva migliorare, ottimizzare quanto conosceva, quanto era proprio della sua eredità storica: la scrittura manuale. La sua scrittura artificiale ha definito invece il mondo della cultura occidentale, e il suo predominio nel pianeta, negli ultimi cinque secoli. I cd erano nati per contenere suoni, musica; e si sono poi rivelati di fatto un supporto assai flessibile, ben adatto al digitale in tutte le sue forme. Ma i cd-rom sono solo una modalità di distribuzione, una specie di prova generale di una più ampia interattività via monitor, o prefigurano una nuova, creativamente affascinante e necessariamente poco esplorata, forma di cultura, a cui non siamo ancora in grado di dare nome?

[Testo parziale dell’intervento al simposio L’editoria digitale, promosso dal comune di Venezia, tenutosi a Mestre, il 10 aprile 1996.]

17.4.04

[1996#01] berlino

l progetto d’immagine della città di Erik Spiekermann (MetaDesign)

«Ogni viennese è un monumento, ogni berlinese un mezzo di trasporto»
Karl Kraus, Detti e contraddetti


«Per essere efficace, ogni organizzazione ha bisogno di un chiaro senso delle proprie finalità, che siano capite da chi ne fa parte; e ha bisogno anche di un forte senso di appartenenza. -afferma Wally Olins nell’introduzione di un suo classico sul tema, quale Corporate Identity, per rispondere alla domanda: che cos’è l’identità per le istituzioni?- Obbiettivi e partecipazione sono i due risvolti dell’identità. Ogni organizzazione è unica: l’identità non può che derivare dalle proprie radici, dalla propria personalità, dai propri elementi di forza e dalle proprie debolezze. Ciò è vero per la moderna impresa globale, così come è sempre accaduto per ogni altra istituzione nella storia, dalla chiesa cristiana agli stati nazionali». In buona parte, suggerisce altrove Olins, tali ‘identità’ sono indirizzate e guidate dagli strumenti della comunicazione; per molte delle imprese contemporanee, la progettazione della propria immagine e la comunicazione della propria identità sono considerate le più appropriate e potenti tra le risorse disponibili per lo sviluppo, come dimostrano gli investimenti che ad esse vengono riservati. Il ‘coordinamento d’immagine’ delle istituzioni e delle organizzazioni umane non è però un fenomeno né recente né esclusivamente vincolato al mondo delle imprese, dell’industria e del mercato. Limitandosi per semplicità al nostro secolo, bisogna almeno ricordare, nell’ambito della cultura d’impresa, il caso esemplare e, a suo modo, assolutamente prototipico della Aeg in Germania, la cui ‘immagine’ (per quanto concerne prodotti, edifici, e comunicazione in generale) viene definita e coordinata sin dal 1907 da Peter Behrens, poliedrico talento progettuale del pensiero visivo moderno, tra l’altro straordinario disegnatore di caratteri da stampa. D’altra parte, nel settore della comunicazione d’immagine delle imprese pubbliche e del progetto d’informazione di «pubblica utilità» (secondo un’ambigua definizione, ormai in voga), sono altrettanto emblematiche, per il tema della progettazione d’identità comunicabili, le vicende del sistema dei trasporti londinesi e delle poste olandesi. Il consorzio del London Underground, poi London Transport, sotto la guida di Frank Pick (1878-1941), che nel 1912 ne è già Commercial Manager, svolge un ruolo di grandissimo rilievo nella storia del design contemporaneo. Tra i molti meriti di Pick, che è uno dei fondatori della Design and Industries Association nel 1915 (una sorta di Werkbund inglese): l’Underground Railways Sans, il carattere commissionato nel 1916 a Edward Johnston, uno dei massimi calligrafi d’ogni tempo, utilizzato dal 1919 per ogni comunicazione a stampa del sistema dei trasporti londinesi -ed è tutt’oggi in uso, ridisegnato in formato digitale, col nome di New Johnston-, che a buon motivo può essere considerato il progenitore di ogni ‘bastoncino’ moderno (il celeberrimo Futura di Paul Renner, ad esempio, è del 1927, lo stesso anno del Gill Sans di Eric Gill, che all’alfabeto di Johnston si ispira direttamente); l’adozione della ‘mappa’ (sia pur non immediatamente apprezzata) di Henry Beck nel 1933, prototipo di ogni moderna rappresentazione diagrammatica delle reti, non solo metropolitane; il coinvolgimento di artisti che vanno da Frank Brangwyn a Edward Mc-Knight Kauffer fino a Man Ray nel disegno di raffinati poster aziendali; l’affidamento a Charles Holden della progettazione di innovative stazioni della metropolitana, come Arnos Grove o Cockfosters, e della sede dell’Underground, con i controversi interventi di Jacob Epstein e Henry Moore. Altrettanto importante, per la comunicazione di «pubblica utilità», l’indirizzo impresso alle Ptt olandesi da Jean François van Royen (1878-1942) che, dopo aver denunciato nel 1912 la scarsa qualità della comunicazione pubblica «brutta, brutta, brutta --tre volte brutta- brutti i caratteri, brutta la composizione, brutta la carta, brutti i tre principali elementi che definiscono la bellezza degli stampati», riesce a disegnare per l’istituzione, nel corso di tre decenni, una immagine coordinata di elevatissimo livello, chiamando a collaborare i migliori ingegni progettuali del paese (da K.P.C. De Bazel a M. De Klerk, da V. Huszár a G. Kiljan, da W. Penaat a J. Crouwel, da P. Zwart a P. Schuitema, da L. van der Vlugt a W.H. Gispen) e impiantando così una perdurante tradizione di information design nei Paesi Bassi, di eccezionale vitalità e qualità, pressocché senza confronti in Europa -che nulla ha a che fare con la grafica e la pubblicità, quali comunemente le intendiamo.
La recente, sofisticata operazione di progettazione della ‘identità’ di Berlino, condotta da Erik Spiekermann di MetaDesign, si inserisce a sua volta in un filone di consolidate esperienze di comunicazione dell’immagine pubblica nella Germania del dopoguerra (con i casi notevoli, ad esempio, di Kiel, Leipzig, Leverkusen, Ulm) e, in particolare, nella città del muro, trovando la propria specifica occasione nella recente riunificazione del paese e della capitale. In effetti, negli anni sessanta è uno dei maggiori progettisti visivi tedeschi, Anton Stankowski, a disegnare un ben noto sistema di identità della città, adottato per un quarto di secolo, il Berlin-Layout, in sostanza una griglia con il logo Berlin composto in Helvetica in collocazioni fisse, che definiva «dei principi di ideazione tendenti a uniformare l’identità visiva di Berlino, almeno sul piano grafico. Tutti i documenti stampati dall’amministrazione devono risultare, col tempo, perfettamente identificabili, senza equivoci. Si deve poter dire: ecco, una lettera, un prospetto, una brochure, un manifesto di Berlino!». Nel 1992, il senato berlinese bandisce un concorso ad inviti per la Berlin-Identität, la nuova immagine della città, a cui partecipano Ivan Chermayeff (New York), Pentagram (Londra), Mendell&Oberer (Monaco), MetaDesign (Berlino), Eberhard Stauss (Monaco), Jean Widmer (Parigi). Al progetto ineccepibile quanto monolitico di Widmer, allievo di Itten e autore -tra l’altro- dell’immagine coordinata del Centre Georges Pompidou (1974) e del Musée d’Orsay (1983, con Bruno Monguzzi) a Parigi, viene assegnato il primo premio; la sua ‘immagine’ è caratterizzata sostanzialmente dalla scelta di un pittogramma quale simbolo della città, la foglia di tiglio (palese il richiamo all’Unter del Linden), e dal ricorso al Frutiger come carattere istituzionale. Spiekermann si guadagna con MetaDesign un onorevole terzo posto ma nel 1994 gli viene affidato, con qualche polemica, l’incarico esecutivo. Probabilmente, ciò è dovuto all’approccio persuasivo ed elastico dimostrato in fase di concorso; in tale occasione, MetaDesign dichiara di rifiutare per la comunicazione della Berlin-Identität il «metodo militare prussiano, assai praticato in tutto il mondo, che consiste nel redigere un manuale, una raccolta di suggerimenti e di proibizioni», appellandosi «al buon senso, alla ragione e fors’anche al senso del risparmio»: l’immagine della città di Spiekermann, che è un tentativo di restituzione della dinamica della cultura cittadina e delle trasformazioni in atto, si definisce attraverso un sofisticato sistema di elementi complementari (la spirale come segno generatore e le ‘finestre’ irregolari che bucano il piano di stampa, il motto Berlin e l’orso come emblema, la gamma cromatica ove predomina un tradizionale rosso, i formati fondati sul rapporto di 2:3 e sul modulo 12x18 mm, infine una famiglia di caratteri sviluppati ad hoc, il Berlina). Dal 1994, la finora parziale traduzione esecutiva del progetto di Spiekermann per la Berlin-Identität ha implicato una serie di notevoli adattamenti alle circostanze e alla committenza; ciò ha portato alla stesura per l’amministrazione del Basisdesign, un repertorio ove la «sistematica non schematica» del progetto di concorso si configura con grande semplicità, prevedendone la realizzazione in altre mani, nel disegno di un nuovo simbolo per la città (l’immagine della porta di Brandeburgo associata al logo Berlin, composto con il carattere Thesis), in una concentrata gamma cromatica, nell’adozione mista di due caratteri (il Myriad, un bastoncino digitale contemporaneo, e il Berthold Garamond, un richiamo alla tradizione). A beneficiare della nuova immagine è stata finora la Btm, Berlin Tourismus Marketing GmbH, una società pubblica costituita ad hoc per sviluppare il turismo cittadino, che, dopo aver saggiato una serie di stampati di avvio direttamente affidati a MetaDesign, procede ormai autonomamente. Contemporaneamente, sta prendendo forma, lentamente e non senza problemi ma solidamente, il complesso sistema di comunicazione progettato da MetaDesign per la Bvg, l’azienda dei trasporti pubblici berlinesi, i cui prodromi risalgono al 1987; l’articolatissima macchina visiva va dal logo unificato a una vasta gamma di pittogrammi, dai caratteri digitali (Bvg, Concorde, Frutiger) alla segnaletica, dai punti informativi alle mappe diagrammatiche delle reti fino all’allestimento e all’arredo delle stazioni. Con risultati eccezionali per gli anni che viviamo, Spiekermann si è impegnato con la Bvg in un puntuale, caparbio e delicato lavoro di information design, tanto esemplare dimostrazione attuale dell’importanza della qualità visiva nella comunicazione di «pubblica utilità», quanto elemento di riflessione e confronto, forse utile, in una situazione affatto disastrosa ma non priva di chances, sotto questo profilo, come quella del nostro paese.

[L’immagine della città, in “Casabella” (Milano), 634, maggio 1996, pp. 2-11 (italiano e inglese)]
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