30.6.05

[2005#04] herbert bayer

The Way Beyond Art
Herbert Bayer e la progettazione grafica

Nel numero di giugno 1938 di “Gebrauchsgraphik” –principale rivista di grafica tedesca tra le due guerre, di tratto internazionale, modernista, sofisticato–, quasi un quarto del fascicolo viene riservato al lavoro svolto da Herbert Bayer, freelance dal 1928 a Berlino, quale art director della filiale locale della Dorland, agenzia di pubblicità di origini statunitensi, con sedi in tutto il mondo: una sorta di addio inconsapevole al grande progettista visuale, che due mesi dopo si trasferirà definitivamente negli Usa. Benché “Gebrauchsgraphik” si fosse occupata ripetutamente di Bayer sin dal 1930, l’attenzione della pubblicistica di settore fino ad allora era stata comunque scarsa nei confronti del maestro dell’atelier Druck und Reklame (1925-28) del Bauhaus, ove si era formato (1921-25) dopo l’apprendistato con Georg Schmidthammer a Linz (1919-20) e con Emmanuel Margold a Darmstadt (1920). Successivamente, si assiste alla progressiva notevole diffusione del suo lavoro nell’ambito di cultura anglosassone (a partire dalla prima mostra a Londra, nel 1937) e all’immediata generosa accoglienza negli Usa, come prova, tra l’altro, l’ampia sezione su Bayer pubblicata nel numero di dicembre/gennaio 1939-40 della rivista statunitense di arti grafiche “PM”. A suo modo, anche “PM”, grazie all’impegno di Robert Lincoln Leslie (“That magazine became the means by which I could take care of all the emigres who were flocking here –dichiarerà nel 1981– […] My office was turned into a complete bureau for helping the dispossed”), ha rappresentato un significativo veicolo e un programmatico viatico per la drammatica ondata che negli anni trenta porta negli Usa emigre europei di alto profilo artistico-culturale, soprattutto dalla Germania. Si legge infatti nel numero di aprile 1937 di “PM”, quale annuncio di un imminente fascicolo monografico sul Bauhaus (ma la vicenda andrà per le lunghe): “This issue will be the most ambitious expression of the editors’ belief that those engaged in a given art of design should be aware of their common interest with those in other branches of design, whether it be poster art, typography, scenic design, furniture design, or architecture”.

Accompagnati da una iconografia sottilmente seducente quanto abilmente mirata, i contributi che Bayer pubblica nel fascicolo di dicembre/gennaio 1939-40 di “PM”, oltre ai fundamentals of exhibition design già esaminati in queste pagine, sono contributing towards rules of advertising design e towards a universal type, titolati rigorosamente in minuscole, come tutta la composizione dei testi.
Nel primo, datato 1937, Bayer offre una svelta sintesi ad usum delphini dell’esperienza berlinese con la Dorland, per qualificarsi appropriatamente nel mondo pubblicitario statunitense. Perciò, in contributing towards rules of advertising design, da una parte espone dei principi empirici di composizione grafica (conditi di psicologismi), dall’altra analizza alcuni esempi di sue realizzazioni, che mostrano come, da pristino alfiere della neue typographie, ormai si attesti su posizioni meno radicali e abbia mutato sensibilmente anche registro espressivo. Come rileva infatti Hans Wingler –uno tra tutti– nel suo standard sul Bauhaus, sin dai primi anni trenta Bayer “ha trasposto i principi della composizione surrealista nella grafica, con straordinario impatto”. Al contempo, è certo che l’attività per la Dorland aveva ripetutamente posto Bayer in situazioni delicate, e forse contraddittorie, di rapporto con i poteri della Germania nazista e l’occasione di autopromozione offerta da “PM”, all’egida degli emigre del Bauhaus, doveva rappresentare una buon passaporto ideale per la nuova patria.
In towards a universal type, datato 1935, Bayer affronta invece un tema ricorrente nella storia del disegno contemporaneo di lettere: la tensione verso un monoalfabeto, cioè un sistema unico e non duplice di segni per gli stessi suoni, quali sono le maiuscole e le minuscole usuali. Tentativi di riduzione alla “minima forma utile” attraversano in realtà tutta la vicenda dei tipi del novecento, come dimostrano i casi esemplari tanto del semiomissivo Bifur (1929) di A.M. Cassandre, quanto (a distanza di quarant’anni) del logografico Stop (1970) di Aldo Novarese, ambedue fondati sullo scheletro delle maiuscole, con l’ambizione di individuarne una ultimativa essenza formale. Ancor più forte, soprattutto in Germania, l’ambigua fascinazione che esercita l’idea di un monoalfabeto fondato sulle minuscole. Laszlo Moholy–Nagy, ad esempio, ne discute nel 1925 in Il Bauhaus e la tipografia: “Già Jakob Grimm aveva scritto tutti i sostantivi con l’iniziale minuscola […] Il celebre architetto Loos argomenta nella raccolta dei suoi saggi: ‘Per i tedeschi, c’è una grande frattura fra lingua scritta e parlata. Parlando, non si possono usare le iniziali maiuscole. Ognuno parla, senza pensare alle iniziali maiuscole. Ma se un tedesco prende la penna in mano, non può più scrivere come pensa e come parla’. Anche il poeta Stefan George e il suo circolo hanno posto alla base delle loro pubblicazioni il monoalfabeto. Se a questo fatto si può obiettare che si tratta di una licenza poetica, possiamo aggiungere che a favore del monoalfabeto prese posizione nel 1920, in pieno accordo col libro Sprache und Schrift del dottor Porstmann, anche la sobria associazione degli ingegneri tedeschi, la quale motivò il suo atteggiamento sostenendo che l’uso delle iniziali minuscole non toglierebbe nulla alla nostra scrittura ma la renderebbe più leggibile, più facile da apprendersi e sostanzialmente più economica: è inutile usare per uno stesso suono una quantità doppia di segni, quando ne basta la metà. Queste semplificazioni hanno conseguenze pratiche, nella costruzione delle macchine per scrivere e per comporre, e implicano un risparmio di caratteri e di passaggi […] Il Bauhaus ha approfondito tutti i problemi concernenti la tipografia e ha riconosciuto giuste le argomentazioni addotte a favore del monoalfabeto”. Queste tesi percorrono, aldilà del Bauhaus, la cultura tedesca del novecento (a lungo, la cultura visuale egemone in Europa), come dimostrano gli assunti di Otl Aicher, nel suo celebre typographie, ancora nel 1988. Nel frattempo, si assiste a un fiorire internazionale di esperimenti che, dai tipi di Herbert Bayer –dall’universal (1925) al bayer-Type (1931)– e dal monoalfabeto (1926–29) di Jan Tschichold, passano attraverso le prove di Joost Schmidt e di Josef Albers al Bauhaus, le minuscole sperimentali di Paul Renner per la versione preliminare dell’epocale Futura (1927–30), alcune elaborazioni miste come quelle del systemschrift (1927) di Kurt Schwitters o del peculiare Peignot (1937) di A.M. Cassandre, per giungere ai mixage del primo monoalphabet (1945, basato sul Futura) e del successivo alphabet26 (1950, basato sul Baskerville) di Bradbury Thompson, fino al tentativo più emblematico, ad opera di Max Bill nei primi anni sessanta, ossia di un “carattere di parole–immagini”, come suggeriva Bayer in “PM”, che intendeva essere “riconoscibile con l’aiuto di macchine, per l’enfasi sulle vocali, e più leggibile per la gente: un carattere del nostro tempo”. Al che, forse converrebbe tornare a meditare, per concludere il percorso avviato da towards a universal type di Bayer, sulle parole di Roland Barthes, in Variations sur l’écriture: “La lettera è precisamente ciò che non rassomiglia a nulla: la sua natura stessa è quella di sfuggire inesorabilmente ad ogni rassomiglianza: l’assoluto intento della lettera è contro–analogico. Certo si tratta di un’affermazione al limite, poiché tutto finisce per avere similitudine con qualche cosa (e ciò che non assomiglia a niente finisce per avere somiglianza con una lettera); occorre dunque pensare che la lettera non si è ‘svincolata’ dal pittogramma, ma che piuttosto ad esso si è opposta”.

[in “Casabella” (Milano), 736, settembre, pp. 82-94]
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