14.3.05

[2005#02] kiccoro e morizo



Le manifestazioni etichettate “grandi eventi internazionali” offrono occasioni rilevanti e professionalmente ghiotte non solo per la progettazione architettonica. Ascritta al campo specifico delle identità coordinate (le corporate images del lessico anglosassone), la progettazione della comunicazione visiva di questi eventi è uno dei settori di maggior impegno e rilievo della “grafica”. Ma – è ben lecito chiedersi – quale accezione attribuire a quest’ultima parola, ambivalente e storicamente complessa, per chiamarla in causa così sbrigativamente? In effetti, il termine “grafica” oscilla tra apparenti opposti: l’ampiezza semantica della parola risale non a caso all’etimo greco classico “grafo”, che significava tanto “scrivo” quanto “dipingo”, suggerendo una continuità intrinseca tra logo-grafia e pitto-grafia, di cui paiono immemori le civiltà alfabetiche. Nella concezione contemporanea a cui si fa riferimento qui, “grafica” corrisponde (anche) al visual design anglosassone: la disciplina progettuale degli artefatti visivi, che si impernia attorno a pochi temi sostanziali ossia, in breve: informazione, identificazione, orientamento. Entro questa prospettiva, le identità coordinate sono i sistemi grafici che pongono l’accento sul tema dell’identificazione di un’ente (soggetto, istituzione, impresa o organizzazione che sia). Obiettivo dell’identificazione è una efficace strategia di riconoscibilità visiva, dotata di un ragionevole grado di permanenza cognitiva, che articoli in modo cooperativo e unificante gli aspetti connessi di informazione e orientamento. Si tratta di una tradizione che ha permeato significativamente l’imagerie della società contemporanea, a partire dall’esperienza prototipica di Peter Behrens per l’Aeg, fino a costituire un vero corpus di corporate images (quali quelle di Olivetti e Ibm, per citare le prime che vengono in mente tra i casi-studio classici). In simile contesto, hanno avuto peraltro particolare risalto eventi ecumenici quali le grandi esposizioni internazionali e le assise sportive planetarie, in primis le Olimpiadi, nonostante la loro limitata durata temporale. Al traino di questi fenomeni, ecumenici ma effimeri, si è sviluppata una crescente pressione competitiva di memorabilità, sempre più ibridata da politiche di marketing, rappresentate, in primis, da una sequenza tenacissima di pessime mascottes – con poche notevoli eccezioni, quali il Cobi di Barcellona 1992, dovuto alla mano felice di Javier Mariscal, autore anche della mascotte dell’Expo di Hannover. D’altro canto, identità coordinate quali quelle progettate, ad esempio, da Yusaku Kamekura per le Olimpiadi di Tokio 1964 e da Otl Aicher per Monaco 1972 rappresentano tuttora dei punti di riferimento imprescindibili, pur nelle inevitabili oscillazioni del gusto grafico. A ragion veduta, dopo il flop identitario di Atlanta 1996, il comitato olimpico internazionale ha avviato l’olympic games identification project. Con questo sostegno, Atene 2004 non ha portato molto di nuovo, pur confezionando il tutto in una veste sobria e professionale (se non si guardano le mascottes Phèvos e Athenà). Mentre alla correttezza un po’ scabra, memore dell’international logo style, e piacevolmente efficace delle scelte per Torino 2006 (ancora, Neve e Gliz a parte) sembra rispondere l’ideogrammatica ambizione nazional-popolare di Pechino, pardon! Beijing 2008 – per non parlare, in un’area analoga di sport, del disastro dell’emblema per la Fifa world cup 2006. Sul fronte Expo, lunga sarebbe la storia, se non altro dal Crystal Palace in poi; a conclusione provvisoria, basti notare come nel caso di Aichi 2005 i risultati, pur all’interno di un robusto sistema identitario, sottolineino l’ambiguità del matrimonio di marketing strategico e design graphically correct, piuttosto che l’ambivalenza etimologica della grafica, divaricando ancor più la forbice tra architettura dell’informazione grafica e bamboleggiamento del merchandising alla Kiccoro e Morizo.

[Non solo bamboleggiamento del merchandising, in “Il giornale dell’architettura” (Torino), 28, aprile, pp. 43-44]
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