23.9.04

[2001#04] bauhaus


Almeno in questo, il mito è all’altezza dei fatti: nel campo della grafica, il Bauhaus rappresenta uno degli apici delle ricerche svolte nel primo novecento, destinato a influenzare durevolmente gli svolgimenti successivi. “Nel Bauhaus di Weimar – spiega Herbert Bayer nel 1928, in Tipografia e grafica pubblicitaria – una stamperia d’arte serviva alla riproduzione di opere grafiche […] Quando si sono allestite le officine nel nuovo edificio del Bauhaus a Dessau […] è stata installata, come officina didattica, una piccola tipografia. Nel disbrigo delle commesse, si è fatta pratica di composizione a mano, impaginazione e stampa. Niente estetismi alla moda, nel senso di ‘grafica di consumo’, ma un lavoro ispirato alla conoscenza delle finalità e del migliore utilizzo del materiale tipografico, fino ad allora imbrigliato in un’antiquata tradizione“. In effetti, l’insegnamento e la produzione della prima era del Bauhaus, l’istituto fondato a Weimar da Walter Gropius nel 1919 (con l’intenzione mai sopita di farne, in primis, una scuola di architettura), si limita alla realizzazione di stampe d’arte (affidate alla maestria di Carl Zaubitzer, sotto la direzione di Lyonel Feininger). Gli artefatti grafici che ci interessano (qualche poster, cartoline e poco d’altro, alla resa dei conti) sono caratterizzati perlopiù da una impronta calligrafico–primitivista, legata al gusto del maestro del Vorkurs, il corso preliminare, Johannes Itten. Bisogna attendere la prima importante mostra del Bauhaus, nel 1923, per cogliere il rinnovarsi delle posizioni (tra l’altro, anche per mano di Oskar Schlemmer, a partire già dal marchio del 1922), sostenute con vigore da un nuovo maestro, l’ungherese Laszlo Moholy–Nagy. Esponente di punta delle avanguardie artistiche europee, Moholy–Nagy è chiamato a insegnare (gli viene affidata l’officina dei metalli) nell’aprile del 1923 e si fa sùbito propugnatore di un radicale passaggio “dalla tavolozza alla macchina”. Non a caso, nel 1923 scrive: “la tipografia è uno strumento di comunicazione. dev’essere comunicazione chiara nella forma più efficace. la chiarezza dev’essere particolarmente enfatizzata, giacché questa è l’essenza della nostra scrittura, in confronto alla comunicazione pittorica del passato […] dunque, in primo luogo: chiarezza assoluta in ogni lavoro tipografico. la leggibilità della comunicazione, cioè, non deve mai subire i paradigmi di un’estetica a–priori. i caratteri non devono mai essere forzati entro forme predeterminate”. “Una costruzione tipografica è moderna – continua nel 1926, due anni prima di trasferirsi a Berlino, lasciando il Bauhaus – se trae i mezzi di cui si serve dalle proprie interne leggi […] L’elemento che caratterizza la tecnica dei nostri attuali lavori e che è normativo per il suo sviluppo è lo sfruttamento delle possibilità offerte dalle macchine. I nostri moderni prodotti tipografici […] dovranno avere le caratteristiche della chiarezza, della concisione, della precisione”. A lui si deve, quindi, il maturare di interessi specifici per la tipografia e l’attrezzarsi (mentalmente e operativamente) del Bauhaus verso questo settore, secondo un indirizzo premonitore, che mira al passaggio da una grafica statica a una forma di dinamica ibridazione tra testo e immagine, a una sinossi visuale, mutuata dalla sua sperimentale passione per la fotografia e il cinema. “La forma, la rappresentazione – spiega Moholy–Nagy in Malerei Photographie Film, il suo primo libro, nel 1925 – si fonda su relazioni ottiche e associative: verso una continuità visuale, associativa, concettuale, sintetica: verso la tipofoto quale rappresentazione non ambigua, tramite una forma otticamente valida […] Che cos’è la tipofoto? Tipografia è comunicazione composta con i tipi. Fotografia è rappresentazione visiva di quanto può essere ripreso otticamente. Tipofoto è rappresentazione della comunicazione nel modo visualmente più preciso”. Sul piano della produzione grafica, il suo contributo più importante è la concezione innovativa della collana dei Bauhausbücher: Moholy–Nagy cura personalmente 12 dei 14 “libri del Bauhaus” usciti dal 1925 (i primi 8 erano già pronti nel 1924) al 1931, riservandosi anche il disegno di alcune copertine. Assieme a lui, altri maestri – quali Josef Albers, che succede a Moholy–Nagy nel corso preliminare, Herbert Bayer, Joost Schmidt – approfondiscono e modulano l’idea di una “nuova tipografia”, sia sul versante del disegno delle lettere (mirante al “monoalfabeto” preconizzato da Portsmann, come nel caso dell’Universal di Bayer del 1926), sia su quello della comunicazione grafica tramite artefatti a stampa, in una serie di strordinarie sperimentazioni. Formatosi dapprima a Linz e a Darmstadt, dal 1921 Bayer completa i suoi studi al Bauhaus, per essere richiamato nella nuova sede di Dessau come maestro (dopo un viaggio in Italia nel 1923–24) responsabile dell’officina di tipografia dal 1925 al 1928, anno in cui – lasciato il Bauhaus – si trasferisce a Berlino, ove (tra l’altro) dirige l’agenzia Dorland, prima di emigrare definitivamente negli Usa nel 1938, alle soglie della guerra. Diplomatosi in pittura all’istituto superiore di belle arti di Weimar nel 1914, dopo la partecipazione alla grande guerra, Joost Schmidt studia invece scultura al Bauhaus, tant’è che nel 1925 gli viene affidata la direzione di quell’officina. In seguito alla partenza di Bayer, gli succede nella direzione dell’officina di tipografia (1928–32), fino alla chiusura della scuola a Dessau, segnalandosi anche per le esperienze nel campo dell’allestimento espositivo (ove si era ben misurato anche il suo predecessore). I principi compositivi della tipografia del Bauhaus, inizialmente mutuati dal neoplasticismo di Van Doesburg e dal costruttivismo russo, si erano andati rafforzando nel tempo e attraverso la prassi, con considerazioni tayloriste ed economiche, di massima efficienza ed economia di mezzi. Nonostante gli sforzi dei maestri, a ciò corrispose però la diffusione dell’idea di uno “stile” Bauhaus: “il risultato fu la rapida adozione – riassume amaramente Bayer, nel testo citato in apertura – di banali apparenze esterne […] quel che restò fu l’abuso di grossi punti, di barre spesse, di fregi e imitazioni della natura con i materiali tipografici ma, in tal modo, ci si trovava di nuovo al punto di partenza”.



[Bauhaus: tipi, tipografia, tipofoto, in abecedario la grafica del novecento, Electa, Milano 2002, apparato iconografico a cura di Pierpaolo Vetta]

22.9.04

[2001#03] giovanni pintori


“I suoi risultati migliori di pittore, di grafico, di designer sono effetto di sintesi”: così Libero Bigiaretti ebbe a scrivere di Giovanni Pintori nel 1967, in uno dei “Quaderni di Imago” della Bassoli, cogliendo un punto che si pone - anche in questa sede - come essenziale. Si tratta della singolare capacità di sintesi iconica, della peculiare virtù di giungere a produrre concentrate guizzanti energie visive, della magica abilità di estrarre indirizzare ridurre la rappresentazione a idea una di vibrante essenza, attraverso un misterioso lavorio congiunto della mente e della mano. Così questo straordinario visual designer italiano ha saputo rispondere e corrispondere (in modo assieme stringente e fantastico) alle esigenze di immagine promozionale coordinata della Olivetti, per un assai ampio arco di tempo nel corso del novecento. Ma andiamo con ordine.
Fisico asciutto, carnagione olivastra, non troppo alto e dotato di un caratteraccio - così descrivono le cronache il nostro Giovanni Pintori, noto a tutti semplicemente come Pintori, che nasce nel 1912 a Tresnuraghes, in provincia di Nuoro. Nel 1930, a diciott’anni, Pintori vince una borsa di studio per l’isia (istituto superiore per industrie artistiche) di Monza, che frequenta fino al 1936, con insegnanti del calibro di Marcello Nizzoli, Giuseppe Pagano ed Edoardo Persico - tre dei maggiori esponenti delle originali ricerche razionaliste in Italia tra le due guerre e figure di spicco della nostra cultura artistico-architettonica. Pintori allora collabora all’allestimento sia della mostra d’arte grafica della VII Triennale di Milano, sia della celeberrima mostra dell’aereonautica italiana che si tiene nel 1934, sempre presso il palazzo dell’arte milanese. Nel 1937, Adriano Olivetti lo prende con sé nell’ufficio pubblicità dell’azienda: impegno che Pintori esplorerà per oltre trent’anni, fino a diventare direttore artistico dell’ufficio nel 1950, ottenendone fama internazionale e fondatamente duratura. Pintori ha infatti impresso un segno indelebile alla comunicazione aziendale dell’impresa italiana più attenta a quel che oggi i giornalisti chiamano “effetto-design”, tanto da suggerire a un colosso come Ibm l’idea e l’esigenza stessa di una corporate identity strutturata che verrà affidata alle mani abili di Paul Rand. Dunque, caso memorabile ed esemplare, quello della Olivetti, nella storia dell’industrial design, da paragonarsi alla prototipica vicenda teutonica della Aeg con Peter Behrens: nonostante gli anni trascorsi, rimane perciò fondamentale, per chi volesse collocare la vicenda di Pintori nel contesto storico che gli compete, la documentazione raccolta nel volume Design Process Olivetti 1908-1983, pubblicato dalle edizioni di Comunità. Nel resto dei suoi anni, dopo l’apertura di un proprio studio nel 1968, Pintori si dedicherà (con pudore) soprattutto alla pittura - come accadrà ad un altrettanto grande e di poco più anziano progettista visivo che varrebbe la pena di porgli accanto, per assonanze di ricerche visuali, in una ideale galleria dei protagonisti della grafica italiana del novecento, ossia l’architetto Franco Grignani. Nella sua posizione di intransigente designer, Pintori ha saputo decantare con acribia nei tre decenni di attività immaginativa all’ufficio pubblicità una sapientissima sequenza di memorabili campagne per i prodotti della Olivetti, tra le quali è difficile isolarne una esemplare: si va da quella per le macchine da scrivere Studio 42 e Studio 44 del 1937-39 (ove è affiancato da una figura di primo piano come Leonardo Sinisgalli) a quella per la Lexikon del 1953, da quella della Lettera 22 del 1954-55 a quella per la Tetractys del 1956, da quella per la Divisumma del 1956-57 a quella per la Elettrosumma sempre del 1956-57, fino a quella per la Raphael del 1961; da non dimenticare, peraltro, la sistemazione dello showroom Olivetti a Milano del 1963 e i vari caratteri per macchine da scrivere disegnati nei secondi anni cinquanta, oltre a una celebre copertina per “Fortune” del marzo 1953, che accompagna la fama raggiunta oltr’Oceano con una sua mostra al MoMA di New York destinata a circolare poi tra Londra e Parigi, per approdare infine alla Biennale di Venezia - uno dei moltissimi tra riconoscimenti premi ed esposizioni che hanno segnato la carriera di Pintori. Alla sintesi unica che nel mondo produttivo delle imprese (multinazionali) ha rappresentato la Olivetti, tramite una gamma plurale di capacità imprenditoriali, produttive, organizzative, inventive e soprattutto culturali (vero motore dell’economia), ha invero corrisposto in pieno la caratterizzante sintesi visuale che Pintori ci ha lasciato nei suoi affascinanti lavori a stampa. Di matrice e segno sì fortemente personali, quanto prettamente italiani, all’egida di un solare razionalismo lirico che - non troppo sotterraneamente - segna la continuità delle ricerche espressive di molti protagonisti delle arti del nostro paese, dai secondi anni trenta alla fine dei cinquanta. In un’era come l’attuale, inesorabilmente marcata da processi di globale omologazione, potrebbe essere interessante chiedersi se le specifiche qualità attinte da Pintori, con l’efficacia sintetica universalmente riconosciuta alla sua espressione, non abbiano forse trovato radice profonda e maturato originale forza proprio in virtù e all’interno di una tradizione: quella dell’indigena, autoctona storia delle arti grafiche del Bel Paese, che, prima d’esser necessariamente tradita da chi intenda praticarle, dovrebbe tuttora e ancora - a nostro avviso - essere conosciuta, tramandata e attraversata.

[Pintori, Omen Nomen, in “sintesi” (Perugia), 12, febbraio 2001, snp]

21.9.04

[2001#02] jan tschichold


Nell’ottobre 1925, le «Typographische Mitteilungen» di Lipsia pubblicano elementare typographie: un avvenimento centrale nella storia della grafica del novecento, che suscita in Germania un’eco subitanea di polemiche, consensi e conversioni, pronta a rimbalzare in fama universale. «1 La nuova tipografia -vi si legge, tra l’altro- ha un fine obiettivo. 2 Il fine della tipografia in generale è la comunicazione. La comunicazione si realizza nel modo più sintetico, semplice ed esatto possibile. 3 Per rispondere alle funzioni sociali della tipografia, bisogna organizzare le sue componenti, sia interne (contenuti), sia esterne (uso coerente di materiali e metodi di stampa). 4 Organizzazione interna significa limitarsi agli elementi di base della tipografia: lettere, cifre, segni, righe di caratteri […] Gli elementi di base della nuova tipografia includono […] anche l’immagine oggettiva: la fotografia. La forma di base del carattere da stampa è senza grazie». Autore del ‘manifesto’ -e progettista del fascicolo- è Jan Tschichold: un ventitreenne calligrafo, destinato a diventare uno dei massimi progettisti visuali del novecento, che si è trovato sulla sua via di Damasco nell’agosto 1923. Visitando allora la prima mostra del Bauhaus a Weimar non solo ha conosciuto i lavori dei maestri della scuola ma è anche entrato in contatto con le ricerche degli artisti delle avanguardie più radicali -come El Lisickij, Schwitters o Van Doesburg-, con immediati effetti sul suo lavoro. Di etnia slava, donde l’ostico cognome (traslitterazione di genti del Sorbenland), Tschichold nasce il 2 aprile 1902 a Lipsia; figlio d’arte -il padre Franz è pittore d’insegne- e aspirante artista, dal 1919 frequenta l’accademia di arti grafiche e del libro della sua città. Nel 1921, divenuto assistente all’accademia, inizia anche l’attività professionale, che fin’oltre la metà degli anni venti lo vede comporre calligraficamente -come s’usava- centinaia di annunci pubblicitari. Alla fine del 1925, va a Berlino a cercar fortuna; trova moglie in Edith Kramer e lavoro a Monaco di Baviera, ove si trasferisce nel giugno 1926, chiamato a insegnare da Paul Renner (impegnato a disegnare l’epocale carattere Futura). Tra fine anni venti e primi anni trenta, non gli mancano peraltro lavori di grafica o di disegno di lettere -da un monotipo sperimentale all’albersiano Transito, fino alla decina di (perduti) tipi per la nuovissima e poco fortunata macchina della Uhertype, la prima fotocompositrice della storia. Soprattutto, in quel torno d’anni comincia a scrivere una serie di importanti testi (oltre 25 i volumi pubblicati nell’arco della sua vita), di cui progetta anche la veste grafica. Inizia nel 1928 con un fondamentale (seppur, per oltre mezzo secolo, accessibile solo a lettori di lingua tedesca) e assai -noto libro, intitolato Die neue Typographie: primigenio tentativo (a detta degli storici) di una teoria della progettazione visuale degli artefatti a stampa. Tra fremiti ideologici, ingenue intransigenze e furori novatori, Tschichold approfondisce le argomentazioni della ‘nuova’ grafica, segnata da asimmetria funzionale e antidecorativismo macchinale, purezza astratta e semplicità ritmica. Visibile protagonista del Kultur-Bolschewismus -a detta dei nazisti, giunti al potere-, nella primavera del 1933 viene arrestato e, mentre è in ‘custodia protettiva’ per sei settimane, apprende di aver perso il suo posto d’insegnante. Nell’agosto 1933, si rifugia con la moglie e il figlio di quattro anni a Basilea; con un permesso provvisorio di lavoro vive una situazione di ambasce continue, fino alla concessione della cittadinanza elvetica nel 1942. Dalla metà degli anni trenta, gli avvenimenti lo portano, del resto, a considerare in una diversa prospettiva le categoriche affermazioni giovanili, a favore sia di un approccio meno rigido alle esigenze della progettazione visuale, sia di una ragionata convivenza tra tradizione e innovazione. A molti ciò apparirà come un vero tradimento ma nell’appassionato auto-da-fé di Glaube und Wirklichkeit, pubblicato nel giugno 1946 in risposta a un attacco violentissimo di Max Bill, la ‘nuova tipografia’ è paragonata da Tschichold a una teutonica, militaresca volontà assoluta di irreggimentazione: «la tragedia fu che la sincera, ascetica semplicità [della nuova tipografia] raggiunse presto un punto oltre il quale non era possibile andare […] iniziò la ricerca di forme nuove, che tendevano naturalmente all’altro estremo, la decorazione […] sarebbe sbagliato considerare la tipografia decorativa come la forma moderna: ambedue sono moderne, se si smette di investire la parola ‘moderno’ di giudizi di valore». Dopo aver lavorato per editori svizzeri quali Benno Schwabe o Birkhäuser, nell’immediato dopoguerra viene chiamato a Londra dall’intuito geniale di Allen Lane, per riformare i Penguin. Dal 1947 al 1949, Tschichold affronta il compito immane di progettare una produzione editoriale di massa, che per i titoli normali prevede prime tirature non inferiori a 50mila copie. Stabilisce le magistrali Composition Rules, ridisegna le copertine e i simboli, definisce le griglie di una ventina di collane ma si rifiuta categoricamente di fissarne i tipi una tantum e disegna oltre 500 frontespizi, con individuale cura. Tornato a Basilea, continua l’attività di progettista editoriale e, dal 1955 al 1967, è consulente tipografico della Hoffmann-La Roche; nella prima metà dei sessanta disegna il suo carattere più noto, una variazione problem-solving del Garamond, che porta il nome di Sabon. Nel 1968, si ritira a Berzona, in Ticino; l’11 agosto 1974, lascia questo mondo. «In general, we should consider the typography of the Western world as one and the same thing […] -aveva affermato nel 1959 a New York, distillando il suo pensiero- The aim of typography must not be expression, least of all self-expression, but perfect communication achieved by skill. Taking over working principles from previous times or others typographers is not wrong but sensible».


[Fede e realtà, in “Casabella” (Milano), 688, aprile, p. 94]

20.9.04

[2001#01] eric gill


«Le lettere son dei segni che stanno per dei suoni […] -scrive Eric Gill nel capitolo Lettering del suo An Essay on Typography, vero classico del genere (ancora inedito in italiano): I edizione 1931, II aum. 1936, III 1941, IV 1954, V 1988 e non è finita- Le lettere non sono figure o rappresentazioni. Sono forme più o meno astratte […] Le lettere per noi sono l’alfabeto romano e l’alfabeto romano son le nostre lettere […] e si può dire che queste lettere han preso conformazione definitiva intorno al I secolo dC […] Per quanto esistessero altre lettere d’ogni tipo (su tavolette di cera, su papiro ecc.), il genere più comune era l’iscrizione su pietra. Di conseguenza, quando si dovevano tracciar lettere ‘nel miglior modo possibile’, era l’iscrizione lapidea a far da modello. Non si diceva: questo strumento, quel supporto rende naturale o si presta alla realizzazione di tali e talaltre forme. Al contrario, si diceva: le lettere sono queste e quest’altre forme; perciò, quali che siano gli strumenti e i supporti, si devono tracciare queste forme nel modo migliore consentito da strumenti e supporto. Questo è il procedimento che è stato sempre seguito. La mente decide le forme delle lettere, non lo strumento o il supporto. Non si vuol con ciò negare che strumenti e supporti abbiano avuto influenza sulla forma delle lettere ma questa influenza è stata alla fine secondaria e in massima parte s’è esercitata senza la cosciente intenzione dell’operatore». S’acconsenta o meno con queste sue tesi, Gill è uno straordinario artista e progettista visuale del novecento, pressocché ignoto al di fuori dei confini patri; potrebbe essere assunto a matura espressione del peculiare ‘modernismo’ del Regno Unito tra le due guerre, all’egida di un’esistenza inquieta, eccessiva e mobile, sospesa tra religiosità e carnalità, ascetica e politica, meditazione e propaganda, sacro e profano. Come la sua vita intima (meticolosamente registrata), la sua produzione artistica e letteraria è, a dir poco, smodata e plurale: migliaia di incisioni, oltre 700 iscrizioni, almeno 500 sculture, più di 550 testi; e non è il caso di dimenticare qui i suoi caratteri da stampa, disegnati tra secondi anni venti e prima metà dei trenta ma tutt’oggi in uso: Perpetua, Gill Sans, Joanna (il più bel corsivo del novecento) i maggiori -e poi Solus, Golden Cockerel, Bunyan (Pilgrim). Oratore instancabile, polemista feroce, opinionista facondo in materia d’arte società religione, Eric Arthur Rowton Gill era nato il 22 febbraio 1882 a Brighton, secondo dei dodici figli di Arthur Tidman Gill e Rose Gill, in una famiglia ricca di vocazioni religiose, a cominciare dal nonno, missionario nelle isole dei mari del sud, e dallo stesso padre, ministro dissenziente. Il giovane Eric mostra talento grafico e nel 1897 studia da artista alla Technical and Art School di Chichester. Nel 1900, diciottenne, si impiega invece a Londra come disegnatore nello studio dell’architetto degli Ecclesiastical Commissioners di Westminster, William D. Caröe. Nei tre anni di apprendistato da Caröe, Gill passa le sue serate studiando arte della muratura al Westminster Technical Institute e calligrafia alla Central School of Arts and Crafts, sotto la guida magistrale di Edward Johnston, che nel 1902 lo invita a dividere con lui l’alloggio nel complesso comunitario della Lincoln’s Inn, una delle quattro Inns of Court di Londra. Nel 1903, Gill decide di lasciare lo studio di Caröe per dedicarsi alla libera professione di artigiano-letterista, dopo aver ricevuto l’incarico di alcune iscrizioni per la nuova Medical School a Cambridge dall’architetto che la stava costruendo, Edward Prior. Dopo il matrimonio di Johnston nel 1904, anche Gill si sposa, nello stesso anno, con Ethel Moore, da cui avrà tre figlie (Elizabeth, Petra e Joanna -il figlio Gordian sarà adottato). Agli inizi, i lavori di Gill sono soprattutto iscrizioni, insegne e incisioni, che gli vengono richiesti da privati ma anche dalla catena britannica WH Smith e dall’Insel Verlag di Lipsia. Dopo aver aperto il suo primo atelier a Hammersmith, già nel 1907 deve trasferirsi con la famiglia a Ditchling, nel Sussex, ove inizia a scolpire la pietra, attività che nel corso degli anni lo vedrà assumere importanti incarichi, quali la Via Crucis nella cattedrale di Westminster (1914-18) o i rilievi per i London Underground Headquarters (1928 sgg), la Bbc Broadcasting House (1929 sgg), la sede della Società delle nazioni a Ginevra (1935-38). Nel 1908, Gill stringe amicizia con Roger Fry, Jacob Epstein e Ananda Coomaraswamy, che lascerà un profondo e durevole segno in lui; altri importanti incontri saranno quelli con Jacques Maritain (1923) e Henry Moore (1928). La comunità di Ditchling si arricchisce con l’arrivo di Johnston nel 1912; l’anno dopo Gill si converte alla dottrina cattolica. Nel 1924, una sempre più ampia comunità muove da Ditchling a Capel-y-ffin, un remoto monastero semidiroccato nelle Black Mountains del Galles, dove Gill si occupa soprattutto di incisione e disegno di caratteri, in felice associazione con la Monotype Corporation (sotto la guida artistica di un consigliere d’eccezione quale Stanley Morison) e con la Golden Cockerel Press. Del 1924 è anche l’incarico del governo di Sua Maestà di progettare francobolli e una moneta d’argento. Le difficoltà logistiche di Capel-y-ffin porteranno nel 1928 a un nuovo trasferimento, questa volta a Piggotts, in un gruppo di fattorie presso High Wycombe nei Chilterns, che ospitano, oltre ad assistenti e famiglie varie, anche un vero atelier di scultura e una tipografia, fino a farne «a cell of good living -per usare le parole di Gill- in the chaos of our world». Del 1939 è infine il suo unico progetto da architetto (professione a cui s’era votato ed era stato formato in gioventù), la chiesa neo-ogivale di Gorleston-on-Sea, nei pressi di Great Yarmouth. Colpito da cancro polmonare, Gill muore il 17 novembre 1940; sulla pietra tombale, da lui stesso disegnata, si legge: «Pray for Me / Eric Gill / Stone Carver».

[Eric Gill / Stone Carver, in “Casabella” (Milano), 686, febbraio, p. 84]
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