14.10.06

[2006#0] alan fletcher

Lo sguardo laterale
(Alan Gerard Fletcher 27.9.1931 – 21.9.2006)

“Design is not a thing you do. It’s a way of life”: in questa lapidaria frase di Alan Fletcher, uno tra i massimi graphic designer degli ultimi cinquant’anni, sta forse la chiave più genuina per comprenderne la straordinaria passione e la profonda identificazione nei confronti del “disegno”, nel duplice intimo significato della parola: figurazione e progettazione, tecnica materiale di rappresentazione visiva e atto mentale di prefigurazione fabbricativa. In gioventù, Fletcher (classe 1931) volle ed ottenne una educazione fuori del comune, tra Uk e Usa, grazie a docenti quali (tra altri) Froshaug, Matter, Thompson, Albers, Rand (forse l’impronta più forte), trovando tra le amicizie scolastiche una cerchia di analoga qualità, inclusi i suoi futuri soci. Suae Fortunae Faber, Fletcher nel suo decennale percorso formativo superiore peregrina così dalla Londra del bigio dopoguerra e degli angry young men all’euforica affluente altra sponda dell’Oceano e oltre, in un itinerario che si conclude tra Los Angeles, Caracas e Milano. Al ritorno a Londra (1959), avvia un talentuoso team-work, con la spigliata partnership creativa Fletcher Forbes Gill (1962), trasformatasi presto in Crosby Fletcher Forbes (1965), attiva per un parco di clienti fin dal principio di tutto rispetto, secondo una prassi fondata sul primato ideativo. “Every job – soleva infatti ripetere Fletcher – has to have an idea”: “la nostra tesi – precisava in Graphic Design: Visual Comparisons del 1963 – è che ciascun problema grafico abbia un numero infinito di soluzioni; che molte siano valide; che le soluzioni debbano derivare dalla natura del tema; che il progettista non debba avere uno stile grafico preconfezionato”. La compassata tradizione del modernismo britannico, poco appariscente ma ricca di esempi significativi, soprattutto di public design (a partire da istituzioni come il London Transport), e l’astinente dogmatica esperienza contemporanea della “grafica svizzera” veniva così ibridata, negli anni della Swingin’ London, dal potente, allegro e gioioso wit di Fletcher e soci, con risultati sorprendenti e memorabili. Nel frattempo, tra anni sessanta e settanta crescono – almeno fino alla prima grande crisi del petrolio – la fiducia nelle performances dello “stile internazionale” delle agenzie di visual design e le chances di grandi studi di corporate image, come l’olandese Total Design o l’italo-americana Unimark. In questo clima, ancora di Fletcher è l’invenzione del (poco amato) nome di Pentagram (1972), design consultancy multinazionale (tutt’oggi assai attiva) in cui confluisce la sua precedente formazione, ampliandone – a lungo andare – confini e committenti oltre la misura congeniale a Fletcher, che la abbandona vent’anni dopo (1992), lasciando in eredità di “una girandola continua di invenzioni, – come ha ben colto Andrea Rauch – colte e raffinate, sorrette da un’intelligenza beffarda e invadente”. Da allora fino alla sua recente scomparsa, Fletcher ha potuto dedicarsi con maggior libertà alle sue più personali inclinazioni e ricerche, spinte da un perdurante entusiasmo nel “tentare di ridurre qualsiasi cosa – come egli stesso dichiarava – alla sua assoluta essenza”, per evitare le trappole stilistiche. Documento straordinario di queste ricerche è un libro (covato da Fletcher per quasi vent’anni), il cui titolo riassume un programma di vita, la sua way of life, e cioè The Art of Looking Sideways (2001): la capacità (laterale) di mantenere un sguardo critico, senz’esser barbogio, sul mondo.
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