30.6.04

[1998#06] francobolli

Il servizio postale moderno si costituisce verso la metà del secolo scorso, assumendo un ruolo centrale nei sistemi di comunicazione degli stati nazionali, che porta in breve alla costituzione di appositi organi di gestione e dei relativi dicasteri. Nonostante l’inarrestabile assalto di tecnologie prima elettriche (dal telegrafo al telefax) poi elettroniche (email in testa), la posta mantiene ancora un ruolo privilegiato nell’ambito della distribuzione sia della comunicazione testuale, della parola resa visibile tramite manoscritto o stampa, sia anche di un repertorio iconico, di un immaginario diffuso che, per alcuni versi, è altamente specifico (si pensi alla saga delle cartoline illustrate, al suo acme al principio del novecento). Ad assumere il ruolo di emblema di questo sistema di comunicazione, fungendo da «documento di viaggio» per il servizio, è il francobollo, la cui sostanziale innovazione è di natura economica: porre a carico del mittente e non più del destinatario i costi (in forma di tasse uniformi) di trasmissione del messaggio.
Pur dibattuta, la paternità dell’innovazione è attribuita comunemente a Sir Rowland Hill, perfetto esempio di progressiva pragmaticità britannica, in età di dilagante Industrial Revolution. Nel quarto decennio dell’ottocento, le tesi che Hill espone nel libello Post Office Reform: Its Importance and Practicability trovano rapida ed efficace applicazione, sotto la sua diretta sovrintendenza. Nel settembre 1839, infatti, oltre 2600 concorrenti partecipano al concorso per il disegno del nuovo artefatto grafico; insoddisfatto dei risultati, Hill opta per il proprio bozzetto, che riprende da una medaglia il profilo della regina Vittoria. Noto come Penny Black, il primo francobollo al mondo viene emesso dalle riformate poste inglesi il 1 maggio 1840, in un contenuto formato rettangolare (circa 2 x 2.5 cm), a lungo adottato come standard de facto. Tra anni quaranta e anni cinquanta dell’ottocento, un crescente numero di paesi segue l’esempio britannico, a cominciare dai cantoni di Zurigo e di Basilea e dal Brasile -mentre i primi francobolli appaiono in Italia nel 1849. Si affinano nel frattempo le caratteristiche tecniche dell’oggetto: formato, vignetta, carta, filigrana, gommatura -per la dentellatura (inizialmente i francobolli ne erano privi e venivano ritagliati con le forbici), l’irlandese Henry Archer cede al governo britannico il brevetto della prima perforatrice nel 1854.
Nell’arco di un secolo e mezzo, fissati ben presto i propri standard tipologici e le condizioni di circolazione extranazionale (la prima convenzione internazionale è del 1874), questo rettangolino cartaceo conosce una eccezionale fortuna planetaria. Si tratta, probabilmente, di uno tra i più eloquenti documenti visivi della cultura materiale contemporanea. Peculiare oggetto di design di massa, nel senso di un artefatto grafico industriale tra i più comuni, il francobollo è in grado di veicolare (aldilà della propria funzione fiscale) articolati messaggi iconici, talora di elevato «quoziente estetico» e comunque ampiamente apprezzati nella ricezione dal pubblico. Prova ne sia l’esistenza della filatelia, cioè di un mercato collezionistico tra i più ampi e di una ricchissima letteratura specialistica, ove raramente si incrociano però gli storici delle arti (il nostro Federico Zeri è una delle rare eccezioni). In questa misconosciuta storia, particolare rilievo assume l’esperienza delle Ptt, le poste olandesi, dirette da un manager sui generis quale Jean François van Royen. Dopo aver denunciato senza mezzi termini nel 1912 i limiti della produzione dell’azienda pubblica (“tre volte orribile: orribili i caratteri, orribile la composizione, orribile la carta; orribili i tre principali elementi che definiscono la qualità estetica degli stampati”), van Royen nel corso dei tre decenni successivi riusce a definire una «identità visiva» di elevatissimo livello per l’istituzione. Chiama infatti a raccolta, ecumenicamente, i migliori ingegni progettuali del paese -architetti e designers che vanno da K.P.C. De Bazel a M. De Klerk, da P. Zwart a C.L. van der Vlugt-, contribuendo a impiantare una specifica tradizione di Public Design nei Paesi Bassi, di grande vitalità, che dagli stampati (francobolli in testa) si dilata a tutti gli oggetti e i prodotti delle Ptt. La politica di “qualità globale” delle Ptt olandesi continua, in effetti, fino ai giorni nostri, anche dopo la trasformazione del servizio pubblico in azienda privatizzata, ed ha visto nel corso del tempo la collaborazione di altre figure di primo piano quali W. Sandberg, D. Elffers, C. Oorthuys, O. Treuman, J. Swaarte, J. Coenen, W. Crouwel. Il caso olandese, dunque, è esemplare per i risultati a cui ha portato una solida consapevolezza del valore di comunicazione pubblica rappresentato dai francobolli, tanto da affidarne a raffinati progettisti il disegno. Ma vi sono altre considerazione possibili e interessanti, sul processo di ideazione dell’artefatto in questione; non seconda -vista la sede di questa nota- è la scelta del soggetto, il tema del «commemorativo» (la maggior parte di quelli in circolazione), come viene chiamato nel lessico filatelico il francobollo destinato a rappresentare qualcosa di diverso dal semplice valore facciale. Escluso quello infantile, il collezionismo filatelico da tempo non è più generalista ma variamente tematico (astronautica, flora, fauna, sport e chi più ne ha più ne metta); tuttavia, inutilmente faticherebbe il nostro lettore a cercare dei cataloghi tematici di architettura -rarissima aves-, meno che mai di quella contemporanea. Tale assenza esprime una peculiare e a suo modo parlante contraddizione, che dovrebbe far meditare sull’immagine che le amministrazioni postali trasmettono dei propri paesi, in specie del presente. L’architettura, in vario modo, è infatti tra le rappresentazioni più comuni nei soggetti dei francobolli. Quella contemporanea (lo documenta l’episodica antologia raccolta in queste pagine, per exempla) vi fa timido capolino, restituendo un curioso ma non trascurabile riflesso tanto della cultura di chi è preposto a tali scelte, quanto soprattutto della percezione promossa e diffusa dallo stato circa i temi che «Casabella» propone ed argomenta. Si apprezza quanto si immette nel patrimonio culturale collettivo ovvero: ciascuno mostra quel che si merita -parrebbero, non senza ironia, suggerire questi niente affatto innocui rettangolini di carta.

[Architetture da incollare, in “Casabella” (Milano), 660, ottobre, pp. 36-41]

29.6.04

[1998#05] ed fella

l vernacolo nella tradizione grafica statunitense
«I metalli si riconoscono dal suono, gli uomini dalle parole»
Baltazar Gracián, Oraculo Manual y Arte de Prudencia (1647)


Dal concerto delle discipline che, secondo i non coincidenti moti loro propri, scrutano indagano dissezionano e ricompongono, fin sull’orlo centrifugo del presente, il corpo in perenne mutazione e crescenza della storia umana, è emersa da tempo e si è affinata sul campo negli ultimi decenni una significativa, puntuale, critica attenzione per la cultura materiale. Secondo tale approccio, si indaga la storia privilegiando la cultura massiva e diffusa piuttosto che quella delle élites, i fenomeni reiterati piuttosto che gli eventi e gli accadimenti d’eccezione, gli artefatti comuni piuttosto che gli oggetti d’arte e di lusso, le tecniche e gli strumenti operativo-produttivi piuttosto che i costrutti simbolico-rappresentativi, le mentalità invece dei grandi uomini. Va da sé che questo indirizzo di studi abbia portato a riconsiderare la questione cruciale dei dialetti e dei vernacoli (i quali, secondo la definizione prevalente, in sostanza sono dei lessici dialettali), tanto in ambito propriamente linguistico, quanto nel campo esteso delle storie (inter alia, delle arti tutte), non più in una prospettiva di studi minori, locali, eruditi, superando l’impasse della pura protezione e conservazione “ambientale” delle culture. Acclarata la natura intrinsecamente polisistemica delle lingue evolute, in ogni campo d’espressione -ognuna si rivela coacervo di molte lingue, interagenti su piani diversi, non sempre congruenti-, si è tentato di saggiare le relazioni delle lingue normative (i repertori registrati, condivisi, normalizzati, d’uso e ricezione prevalente) con le parole sorgive dei dialetti e le resistenti radici delle tradizioni orali, secondo gli obiettivi e i metodi delle diverse discipline. Di fatto, questo tipo di indagini ha interessato operatori e ricercatori d’ogni sorta e specie, coinvolgendo soggetti e ambiti i più disparati, nel Vecchio come nel Nuovo Mondo.
Particolarmente vistoso, per estensione ed esiti, è il fenomeno negli Stati Uniti, sin dai prodromi del Pop, con rilevanti stazioni successive, sia nelle arti (si pensi al graffitismo e ai writers, giusto per esemplificare), che in architettura (un intero indirizzo di gusto, supportato da polemicamente raffinate tesi e virtuosistiche esibizioni progettuali). In effetti, negli Usa questo atteggiamento -spesso frainteso come espressione di sublimata nostalgia e di ossessione del banale- ha radici lontane nel sogno di una eteroglossia autogena, nella rivendicazione della autoctonia (di una cultura coloniale, immigrante, dalle rozze origini euro-popolari, non certo quella dei nativi, di fatto dispersi, marginalizzati, esclusi, dove non sterminati). È parte, insomma, del culto (a volte ingenuo, a volte d’ascendenze radical) di un’American Civilization che nel novecento ha dato i suoi frutti più originali e interessanti, non tanto in ambito High, quanto in quello Low: comics, cartoons, cinema, commercial arts, computers.
In particolare, il Graphic Design americano ha mostrato e mantiene tuttora salda una sua forte attrazione per il vernacolare (si noti, en passant, che il termine vien dall’etrusco verna: schiavo nato in casa, ergo domestico), soprattutto nelle accezioni più casarecce e artigianali, con una intensa fascinazione recente per gli aspetti a-progettuali e anti-intellettuali, legati allo spurio, al residuale, talora al deiettivo. La continuità di getto della vena vernacolare americana nella grafica si riscontra agevolmente, in sede storica: in un intero filone sia di illustratori, da Frederic Remington a Norman Rockwell, fino a Milton Glaser e ai New Pop ultimi, per citare i primi che sovvengono a mente e tacere dei fumettari (ma come si fa a dimenticare Pogo o Mr Natural?); sia di progettisti di caratteri (la peculiarità indigena dei quali -una sorta di peccato originale- sta nell’esuberanza di frontiera dei Wood Types), dai Benton a Frederic W. Goudy, da William A. Dwiggins a Oswald ‘Oz’ Cooper, da Herb Lubalin a molti dei presenti in cataloghi di fonderie digitali quali, ad esempio, Emigre o T26; e si potrebbe continuare, con altri designers in sintonia con la convenzionale conversazionalità del vernacolo. Per liberarsi dalla rigidezza degli stereotipi moderni, per affrancarsi dai dogmi di quanto appariva ormai come uno stanco e tardivo internazionalismo, alla grafica americana contemporanea è parso necessario ricorrere alla genuinità dell’ingenuità, alla deregulation del Visual Thinking classico d’origini europee, alle sgrammaticature antigraziose colte on-the-road e alla decostruzione casuale del messaggio sino ai limiti estremi, come insegna la fortuna planetaria di David Carson. Buona parte della recente produzione statunitense vive dunque all’egida, fin troppo consapevole, di questa ripresa di umori e toni della strada e del vicino di casa, dell’insegna del negozio e della pompa di benzina, del foglio strappato e del cartello logoro. Parrebbe, senza aver compreso a fondo gli spunti critici sia della autoriflessione sul linguaggio grafico, sia della cronaca sull’American Way of Life, da cui origina l’interesse per il vernacolo in due figure chiave, a distanza di decenni, per la vicende di tale tradizione grafica statunitense: Saul Steinberg e Ed Fella.
Originario dei dintorni di Bucarest, dopo studi di sociologia e psicologia nella capitale rumena, Steinberg (scomparso recentemente) si laurea negli anni trenta in architettura al politecnico di Milano e inizia a lavorare nella straordinaria fucina di Antonio Boggeri. Costretto a trasferirsi nel 1941 negli Usa (ennesimo degli emigrés) per ragioni razziali, Steinberg è l’inventore di un icastico, del tutto peculiare e assai originale stile grafico, imitato da generazioni di illustratori e vignettisti in tutto il mondo. La surreale, intellettuale, spesso acre ironia della sua narrazione visiva, sempre sostenuta da una perfetta padronanza espressiva, pur nell’apparente mancanza di tecnica e in un continuo ricercato primitivismo, trova i suoi punti forse più elevati proprio nella descrizione dell’American Landscape, urbano e rurale, a cui ha dedicato alcuni tra gli album più famosi (come The New World del 1965 e The Discovery of America del 1992, ad esempio): non a caso, Peter Blake lo ha descritto come «the finest architecture critic in the world».
Altro sottile esploratore del panorama vernacolare americano, in specie del «paesaggio delle lettere», con un occhio cioè fortemente attratto dai segni alfabetici, dalle scritte comuni, dalle loro tipologie, cromie e riflessi, è oggi Ed Fella. Docente di progettazione visuale presso il celeberrimo CalArts di Valencia, in California, Fella è un tardivo educatore sperimentale -in un certo, anche se assai distante, senso come Weingart, di cui ci siamo occupati recentemente («Casabella», 1998, aprile, 655). Dichiarando provocatoriamente «I hate fine anythings» e suggerendo ai suoi studenti un atteggiamento di «disturbo, distrazione e distorsione» per evitare qualsivoglia feticistica e solipsistica sofisticazione degli artefatti comunicativi, Fella è diventato fonte eletta di ispirazione per la generazione ultima statunitense di grafici e disegnatori di caratteri. Al centro della sua complessa elaborazione estetica, sotto apparenze informal-casuali, un programmatico «More into Less», mirato a superare sia il «Less is More» della morigeratezza moderna, sia il «More is More» della smodatezza post. Il suo lavoro e il suo insegnamento si caratterizzano per una serie di intenzionali manipolazioni, attuate con il fine preciso di amplificare e qualificare il messaggio, che hanno fatto scuola ovunque, fino a marcare fortemente il panorama generale della grafica d’oggi. Ad esempio, per limitarsi alla composizione dei testi: l’irregolarità delle spaziature tra lettere e tra parole; la resezione di parte delle lettere; gli allineamenti scalari; le ripetizioni, i falsi a-capo, le ondulazioni; le variazioni irregolari di corpi e “colori” nei tipi. Nell’ipotesi di un «design come discorso» significante (condivisa dai visual statunitensi più accorti), è dunque necessario disimparare, secondo Fella, per riconquistare, con l’infrazione temperata, una giocosa, gioiosa e humourale narratività alla grafica contemporanea.

[Ed Fella, lettere dall’America, in “Casabella” (Milano), 658, luglio-agosto, pp. 50-61]

28.6.04

[1998#04] tipografia palindroma

La dotta parola palìndromo - spiega qualsiasi dizionario di greco antico - ha un’accezione che si estende, a seconda dei contesti, dal correre indietro al fare un’incursione, dal regredire al convertirsi fino al rinnovarsi; ma un vocabolario italiano ci istruisce del fatto sostanziale che palìndromo identifica parole o frasi che si leggono identicamente, oltre che nel verso per noi abituale sinistra>destra, anche in quello inverso destra>sinistra. Giampaolo Dossena, magistrale studioso di giochi di parole e filologo superbo, ci aiuta a capire meglio che la faccenda non è poi così semplice come sembra: ci sono, infatti, almeno tre tipologie palindromiche. La prima è quella che esemplifica con il caso “anilina-anilina”; la seconda, il tipo bifronte “enoteca-acetone”; la terza “aiuto-otuia”. L’idea sperimentale di una tipografia palìndroma affianca a queste tipologie eminentemente legate alla dimensione testuale, al significato delle parole le quali altro non sono che una serie discreta di lettere, una intuizione legata al significante, ai segni che si aggregano nelle parole: l’indifferenza (rispetto ad un asse speculare verticale) al verso di percezione di ciascuna singola componente alfabetica. Problema: dato che in questo modo si può elevare un palìndromo al quadrato, per usare un’immagine matematica, che sia possibile portarlo al cubo, arrivando a una terza ancor superiore potenza, indagandone la componente pragmatica?

27.6.04

[1998#03] grafica italiana

Nel corso dell’anno passato, in quell’ambito editoriale di nicchia (a dire il vero, almeno apparentemente assai stretta, a differenza d’altri paesi europei, Germania e Uk in testa, per non parlare d’Oltreoceano) che in Italia è la grafica si è verificato un fenomeno abbastanza straordinario. Diuturnamente, tradizionalmente, pervicacemente -verrebbe da scrivere- poco frequentato dagli editori, epperciò in materia di prodotti librarii assai magro (un vero stentarello) e quand’anche del tutto occasionali e per nulla organizzati in sistematiche collane o curate serie, quasi privo da tempo di contributi storico-critici generali ma neppur poi troppo grasso quanto ad antologie e monografie, il campo della grafica nel 1997 è stato significativamente segnato e animato ripetutamente al volgere delle stagioni. In primavera è comparso in libreria Questioni di carattere, in estate grafici italiani, in autunno Milano e la grafica in Italia. Forse non è casuale che, ormai prossimi al chiudersi del secolo ventesimo, in odore insomma di bimillenarietà incipienti e collegate giubilazioni, vengano pubblicati questi tre volumi, tutt’e tre sulla grafica italiana; comunque sia circa il caso o no che li ha voluti, l’effetto è utile ed istruttivo, alfine. Nel loro insieme, difatto complementare (a prescindere dalle singole complessioni, approcci e meriti, di cui tenteremo oltre, brevemente, di dir qualcosa criticamente), consentono per la prima volta -tanto al cultore della materia, quanto al lettore genericamente interessato alla questione- di scoprire l’ampio, non sempre limpido, talora inesplorato, troppo spesso obliato, panorama storico della grafica italiana del novecento, trascorrendo con sguardo analitico e possibilmente critico dalla fine ottocento ai giorni nostri ultimissimi. In altri termini, non si può più parlare di grafica italiana in modo ingenuo, generico e approssimativo, com’è dato non di rado rilevare nella (scarsa) pubblicistica (tuttavia) facilona che affligge il settore; e forse non si può trattare neanche di grafica, in termini così generali. Non si può infatti non convenire con gli operatori, gli addetti e gli osservatori in causa sul fatto che il termine grafica ha raggiunto ormai un’ampiezza di accezioni così vasta da renderlo profondamente ambiguo -il che non è, necessariamente, un disvalore. Certo è anche il fatto che lo statuto di autonomia ormai conseguito sul campo da questa disciplina (palese forse più in altri lidi che nel Bel Paese) si è accompagnato a una tale diversificazione delle sue prestazioni, da far sì che sia almeno problematico includervi indifferentemente l’intera gamma di artefatti comunicativi che gli si attribuiscono. Il problema non è nominalistico ma sostanziale, sia per la ridefinizione -assidua, quanto incerta- delle professioni progettuali contemporanee nel dominio bidimensional-comunicativo (non poi trascurabile, parrebbe, per le nostre società spettacolarmente ipervisualizzanti), sia per la mutazione incessante del profilo di un mestiere pratico-operativo, sottoposto a ibridazioni e germinazioni continue come pochi in tempi (iper)moderni. Ciò non toglie né riduce il grave fatto che nella ricezione comune, nell’interpretazione diffusa, nell’intendimento generale, la grafica sia ancora sottoposta nel nostro paese a feroci misintendimenti e a ferali equivoci. Breve elenco triste d’alcuni d’essi, relativi appunto alla grafica: sarebbe, anzitutto, pratica cosmetica (in ciò accomunata al design tutto), in sostanza cioè opera di addetti al trucco, al cerone, alla cipria e al belletto, prima dell’entrata finale in scena d’alcunché; anima portante ne sarebbe una supposta natura pubblicitaria, identificantela perciò con la promozione mercantile e l’azione di vendita; quand’anche così non fosse, si ridurrebbe a vilissima azione tecnico-meccanica, breve interludio preparatorio-ancillare della stampa, absit ergo ogni ragion progettuale e sola resti una prestazione, un operare che taluni complicherebbero d’inutilaggini pretestuose, se non presuntuose; per fortuna, la tecnologia consente ormai a tutti d’esser grafici, senza bisogno di (naturali) inclinazioni, (faticose) dedizioni, (lunghi) studi o ingombranti tradizioni (secolari), oggi che il computer ha liberato le frontiere dell’uso dei caratteri, della composizione dei testi, del trattamento delle immagini, dell’impaginazione; si potrebbe continuare la vexata lamentatio, ma è meglio non tediare vieppiù il lettore e tornare ai libri del 1997.
Nella collana Scritture, diretta per i tipi di Stampa alternativa / Graffiti da Giovanni Lussu (ove era comparsa nel 1996 la traduzione di un vero classico, internazionalmente assai fortunato, quale Segni&simboli di Adrian Frutiger, del 1978), Manuela Rattin e Matteo Ricci hanno rielaborato con Questioni di carattere. La tipografia in Italia dell’Unità nazionale agli anni settanta la loro tesi in architettura, conseguita presso il politecnico di Milano nel 1994. Il loro illustre relatore, Giovanni Anceschi, giustamente annuncia nella Prefazione che «questo libro riempie un vuoto bibliografico reale». Non si può non convenire infatti con Anceschi (tra i rari veri cultori in Italia -con Lussu e pochi altri- della materia, della disciplina cioè dei mezzi grafici, degli artefatti comunicativi, dei sistemi notazionali e delle scritture) sull’utilità evidente di una (prima) storia della tipografia nell’Italia post-unitaria. Per trovare qualcosa di analogamente utile circa il nostro paese, bisogna rivolgersi a La scrittura. Ideologia e rappresentazione del 1986, magistrale contributo --di tutt’altro respiro e taglio, sia ben chiaro- di uno studioso straordinario di paleografia (ed affini discipline) quale Armando Petrucci, esito della einaudiana Storia dell’arte italiana. Il volumetto di Rattin e Ricci si articola in tre sezioni: La tipografia dopo l’Unità nazionale si occupa della trattatistica (inter alia, si noti il Manuale pratico per il disegno dei caratteri di Adalberto Libera, del 1938) e della pubblicistica di settore (nella prima parte del secolo fondamentali, su opposte sponde quando si confronteranno, «Il Risorgimento Grafico» e «Campo grafico»; nella seconda, ma non all’altezza dei precedenti, «Graphicus» e «Linea grafica»); I protagonisti del mondo tipografico tratteggia i ritratti di progettisti e produttori maggiori; Il carattere come celebrazione di una cultura conclude un po’ bruscamente il testo, analizzando il Semplicità della Nebiolo (1930) e il Garamond di Simoncini (1958). Emergono dalle nebbie di una storia ingiustamente dimenticata delle arti (tecniche?) le personalità contrastanti di intellettuali, imprenditori e progettisti, artisti e attori di un dibattito peculiarmente italiano, nel bene e nel male, quali: Raffaello Bertieri, Alessandro Butti, Gianolio Dalmazzo, Giulio Da Milano, Carlo Frassinelli, Salvatore Landi, Giovanni Mardersteig, Aldo Novarese (primus inter pares), Francesco Pastonchi, Cesare Ratta, Aldo Tallone. Il merito pionieristico indubbio del lavoro di Rattin e Ricci fa dimenticare le ingenuità di una scrittura giovanilmente incerta, spesso aneddotica più che critica, e taluni pochi svarioni (come Torino capitale del Regno all’inizio del novecento); meno accettabili la scarsezza degli apparati, sia iconografico che bibliografico, la mancanza di confronti puntuali con l’estero e di analisi dell’evoluzione dei mezzi tecnico-produttivi; disturbano particolarmente le frequenti semplificazioni, una certa imprecisione terminologica, alcune assenze e/o dimenticanze, l’assoluta esclusione infine di prospettive (storiche) che conducano al presente, ai giorni della catastrofe digitale.
Nonostante il titolo apparentemente limitativo o forse soltanto occasionalmente suggerito da circostanze editoriali, Milano e la grafica in Italia traccia un ancor più panoramico affresco, tutt’altro che puramente meneghinocentrico, nonostante la rilevanza indubbia della capitale morale per l’industria e l’arte della stampa in Italia. Non la tipo-grafica ma la grafica italiana tutta è finalmente passata in visibile, storica rassegna, dal cartellonismo di fine ottocento agli agitati giorni nostri di tribali e ruspanti progettisti on the road di flyers. Una sfida non da poco per gli autori del volume, tomo di gran formato, testualmente corposo e assai ricco d’immagini, edito per i tipi di Leonardo Arte / Elemond, che ha i suoi più diretti precedenti nell’illustratissimo Visual Design. 50 anni di produzione in Italia, edito da Idealibri nel 1984, e nel bio-cronologico Alle radici della comunicazione visiva italiana di Heinz Waibl, pubblicato nel 1988. Da quanto si desume, Milano e la grafica in Italia fa parte di una nuova serie di grafica (rara avis: non possiamo dimenticare, al proposito, l’antesignana, preziosa Pagina diretta da Pierluigi Cerri per Electa), giacché il titolo dedicato all’Italia è affiancato da La grafica in Olanda di Kees Bros e Paul Hefting, versione assolutamente identica al volume edito originariamente in Olanda nel 1993, che ha dettato evidentemente l’impostazione grafica della collana. Analogamente a Questioni di carattere, anche per Milano e la grafica in Italia si tratta di opera a più mani, frutto di un collettivo autoriale formato da Giorgio Fioravanti (noto per lavori sistematico-divulgativi pubblicati da Zanichelli, come Grafica&Stampa del 1984, Il manuale del grafico del 1987 e Il dizionario del grafico del 1993) e dai più giovani Leonardo Passarelli (laureatosi con una tesi su Franco Grignani) e Silvia Sfligiotti (curatrice della seconda edizione di Grafica&Stampa di Fioravanti, nel 1997). «Tra le tante ipotesi -spiega l’Introduzione--- due sembravano essere le strade percorribili: quella di una narrazione cronologica (…); e quella di una storia delle tipologie»; gli estensori hanno preferito la prima, adottando dalla storia dell’arte un modello vasarianamente biografico, non molto aggiornato sul piano del metodo e non giustificabile semplicemente in base a intenti divulgativi, che si esaurisce sostanzialmente in una didascalica presentazione sequenziale (talora un po’ meccanica, sempre splendidamente illustrata) soprattutto di autori e di alcuni temi, organizzata in sette capitoli, con altrettante presentazioni. L’esplicita rinuncia a incrociare il piano del racconto storico con quello delle tipologie (ipotesi sentita come mutuamente esclusiva) ha comportato, in un’opera come questa di notevole pregio, non solo pionieristico, la perdita di alcune peculiari complessità della materia e di taluni (a nostro avviso) necessari approfondimenti critici. In tal senso, si è persa forse l’occasione di verificare, precisare e metter a fuoco con strumenti d’indagine puntuali la diversa valutazione e la più favorevole considerazione del ruolo della grafica italiana nel novecento, che sta lentamente emergendo nella pubblicistica straniera, in specie di lingua inglese; è il caso almeno di ricordare, al proposito, la notevole sintesi e la capacità di penetrazione della situazione italiana di un titolo destinato a divenire ormai un vero standard, quale Graphic Design. A Concise History, opera di Richard Hollis, edita da Thames and Hudson nel 1994. Tutta indirizzata agli artisti e ai loro testi (in una omogeneità di trattamento che non aiuta a comprendere le gerarchie relative di valore), Milano e la grafica in Italia rischia di far perdere il contesto o, meglio, i contesti, necessario contraltare nel campo della comunicazione: non offre spazio alla committenza (in specie, a varie committenze illuminate d’impresa); non esamina le epocali trasformazioni tecniche di produzione, distribuzione, consumo che si sono susseguite nell’arco di tempo della narrazione; ignora la grafica comune, diffusa, dei francobolli, delle banconote, dei sistemi di trasporto, di etichette e targhette et similia, beni di consumo inclusi; sfiora appena le segnaletiche pubbliche diffuse, urbane ed extraurbane; scapola la non oziosa questione del rapporto con l’illustrazione (terreno esplorato e dissodato con sapienza da Paola Pallottino); non si confronta con la grafica di periodici e quotidiani; evita la grafica della cosiddetta multimedialità, tutto il digital design e affronta perciò con palese disagio gli anni novanta (prova ne siano le molte assenze e una certa confusione sui ruoli); anche sul piano degli apparati, biografie e bibliografia le avremmo volute assai più consistenti, aggiornate e complete. Costruita sul sicuro, il necessario e spesso l’ovvio, in un equilibrio poco problematico, l’opera di Fioravanti, Passarelli e Sfligiotti si rivela indispensabile strumento per chi intenda ripercorrere le vicende della grafica italiana del nostro secolo ormai al tramonto, lungo itinerari certi e senza rischi. La copertina -si noti alfine- rende giusto e doveroso omaggio a un grande tra i maestri del visual design italiano, tuttora operante, l’architetto Franco Grignani, rigoroso costruttore ghestaltico e artista op ante litteram; curiosamente, questa copertina costituisce un quasi perfetto, speculare negativo (persino nel taglio) di quella dell’antologia grafici italiani, che l’ha preceduta in libreria di qualche mese.
grafici italiani è una crestomazia della più piena contemporaneità italica, edita per i tipi veneziani di Canal & Stamperia (anche in distinte versioni inglese e francese). L’umorale, episodica, discontinua antologia di autoritratti di 28 studi di progettazione visuale, imbastita e allestita da Giorgio Camuffo (con brevi contributi del sottoscritto, Steven Heller, Franco Grignani, Alan Fletcher, Gillo Dorfles, Bruno Monguzzi, Leo Lionni e AG Fronzoni) ci interroga, prima di tutto, sul senso della compresenza di artefatti comunicativi difformi, distanti, disomogenei -senza nulla togliere al valore delle pluralità espressive e delle ricerche dei singoli, felicemente e necessariamente divergenti- piuttosto che su omogeneità fortuite. Parrebbe però che (riferendosi alla questione di un spazio italiano nella grafica) sia venuta anche a mancare una netta, immediata delimitazione geo-culturale e un’area programmatica di ricerca linguistica, insomma quel riconoscibile confinamento nazionale o stilistico, quel contorno che consentiva di parlare non a sproposito, ad esempio e a piacere, di grafica svizzera o costruttivista, con tutti i limiti di questa e di qualsiasi etichetta. Dalla fine del secolo scorso, attraverso le esperienze storiche di varie generazioni di grafici (ove non sono mancati certo maestri di valore internazionale), fino alle soglie degli anni settanta, lungo l’arco di un secolo almeno, la grafica italiana ha saputo costruire e mantenere delle proprie identità, talora molto forti e sapientemente localizzate. L’impressione attuale di sradicamento non è che un effetto superficiale: al fondo, dissimulati, permangono tratti comuni, si scorge un’identità soffusa ma autoctona. È innegabile infatti riconoscere in queste pagine, al di là delle costruzioni più o meno narcisistiche di ognuno, almeno due moventi italiani. In primo luogo, il policentrismo proprio del Bel Paese, in ogni sua manifestazione culturale (con la feconda dialettica di scambi, e ritorni, tra centro e periferia che ne è sempre conseguita); in secondo luogo, l’attrazione fatale per una forma idiosincratica di progettualità, per una spesso fumosa ma sintomatica «cultura del progetto» che rivela la forte, permanente influenza (se si vuol riflessa, indiretta, mediata oppur solo implicita) delle facoltà di architettura, che va di pari passo con l’assenza pressocché totale di scuole pubbliche specifiche (se si eccettuano gli Isia), nella formazione di buona parte dei nostri grafici. Autodidatti perlopiù, dunque, tesi a reinterpretare le esigenze più disparate che vengono loro proposte dai committenti tramite strumenti, teorici e pratici, acquisiti sul campo, con la duttile capacità di adattamento, ripresa, appropriazione, e con la flessibile intuitività che qualifica le migliori imprese del nostro paese. Il disinteresse pubblico (salvo lodevoli rarissime eccezioni), la feroce distanza delle istituzioni e la conseguente, grave mancanza di diffusione di una cultura visuale definiscono oggi un assetto peculiare del lavoro del grafico italiano, che lo relega spesso a compiti marginali, a un ruolo decorativo se non esornativo. La sempre più critica funzione della progettazione grafica in ogni comparto sia della produzione sia dei servizi sia della vita associata nel mondo contemporaneo sembrano sfuggire alla percezione collettiva, annullando il riconoscimento di virtualità straordinarie per la società e i singoli, per il miglioramento dell’ambiente comunicativo, la gestione delle risorse specifiche, il controllo di una ormai devastante polluzione segnico-visiva nel sistema globale dei media. Al contempo, tale ritardo e simili difficoltà generali si mostrano, a ben considerare le cose, come uno spiraglio profondo per guardare con ottimismo al futuro, come una possibilità da giocare ben ancora aperta, come un percorso difficile da transitare ma non impossibile da indirizzare, come una eccezionale chance, in breve, per la grafica italiana.

[Itinerari della grafica italiana del novecento, in “Casabella” (Milano), 656, maggio, pp. 89-92]

26.6.04

[1998#02] nieuwe beelding > new wave

La lunga marcia della grafica svizzera
Un complesso e assai poco esplorato itinerario storico porta al formarsi in Germania, negli anni tra le due guerre, di una particolare grafica sistematica, incline al rigore informativo, all’economia dei mezzi, ai fini socio-comunicativi, ai linguaggi universali piuttosto che al gusto espressivo, alle urgenze artistiche, al gioco formale, alle ricerche personali. È il fenomeno divenuto in seguito, dopo aver favorevolmente incubato in terra elvetica, comunemente noto coll’epiteto geografico di grafica svizzera, che si è tradotto in una sorta di International Style visivo, imperante nel globo dagli anni cinquanta ai settanta, salvo tardivo-nostalgici epigoni attuali. Costretti dalla tirannia di spazio e dalla coerenza con il tema del Forum a trascurare altri contributi fondamentali (quali quelli di Otto Neurath o di Kurt Schwitters, piuttosto che quelli di Herbert Bayer, di Laszlo Moholy-Nagy o di El Lisickij, inter alii), vorremmo almeno suggerire qui -assai succintamente, tramite alcuni episodi rilevanti- una traccia a nostro avviso significativa di tale storia, che si snoda lungo anse inedite.
Nieuwe Beelding > 1922: una figura chiave di «De Stijl», l’organo di diffusione dell’ascetica astrazione del Nieuwe Beelding (neoplasticismo) olandese, quale il geniale agit-prop culturale C.E.M. Küpper -meglio noto come Theo van Doesburg- tiene un polemico corso a Weimar, mirato a dimostrare a maestri e allievi del Bauhaus i «principi di un nuovo e radicale processo creativo» e gli esiti di una impostazione cromoplastica «esatta» dei problemi artistici. Tra gli allievi, studenti del Bauhaus stesso, quali Max Burchartz, Werner Gräff, Peter Röhl, con precedenti pittorici, recenti incursioni espressioniste, vocazione e formazione artistica; si tratta, per loro, di una sorta di conversione sulla via di Weimar. Li ritroviamo tutti, di lì a poco, impegnati professionalmente nella progettazione di artefatti comunicativi, pubblici e privati, di forte afflato sistematico.
1923: Gräff elabora il suo Material zum Problem einer Internationalen Verkehrs-Zeichen-Sprache, un progetto di segnaletica internazionale per la circolazione stradale, fondato sull’uso del colore e l’unificazione dei tipi.
1926: Röhl prospetta un’ancor più radicale unificazione segnaletica, con una famiglia universale di pittogrammi per i luoghi pubblici.
1924-27: per parte sua, abbandonata l’attività di pittore-artista, Burchartz (partner di Johannes Canis nel 1924-27, nello studio di grafica werbe-bau a Bochum) progetta una delle prime segnaletiche sistematiche conosciute per un edificio, basata sull’uso del colore, nella Hans-Sachs-Haus di Alfred Fischer a Gelsenkirchen (1924-27). Al contempo, le formulazioni di Burchartz a proposito di Gestaltung der Reklame, pubblicate da «Die Form» nel 1926 ma già note nel 1924, si rivelano di eccezionale importanza nella storia della progettazione visuale contemporanea. «In questo lungo articolo -scrive al proposito Richard Hollis, in Graphic Design. A Concise History, London 1994, forse la migliore sintesi storica sulla grafica moderna-, Burchartz analizza la funzione della pubblicità, che cosa la rende efficace e in che modo ne è coinvolto il fruitore. Il concetto di messaggio e di ricezione, che divenne un modo comune di considerare la comunicazione negli anni cinquanta, viene qui introdotto da Burchartz. Ma la massima parte dell’articolo […] è dedicata alla “organizzazione estetica dei mezzi della comunicazione persuasiva”. […] Burchartz elabora questi principi in una serie di progetti che definirono il volto grafico del modernismo internazionale, destinato a sopravvivere al nazismo per riemergere negli anni sessanta con il nome di grafica svizzera».
1927-29: le città di Bochum e di Dortmund, primi esempi noti nella storia, affidano la loro comunicazione d’identità pubblica a stampa, rispettivamente nel 1927 ad Anton Stankowski (il quale nel 1927-29 è allievo di Burchartz alla Folkwangschule di Essen e, contemporaneamente, free-lance nell’agenzia di Canis a Bochum) e nel 1929 a Burchartz.
1929: Stankowski, trasferitosi in Svizzera, lavora presso la Agentur Max Dalang a Zurigo, fino al 1937; è un vero pioniere della grafica industriale, esatto opposto della grafica d’illustrazione: essenzialità, asimmetria, libertà compositiva, ricorso esclusivo al bastoncino Akzidenz Grotesk.
1933: Jan Tschichold, sovversivo fautore della grafica asimmetrica, “bolscevico” propugnatore della elementare typographie (1925), autore del celeberrimo Die Neue Typographie (1928), emigra dalla Germania nazista (dopo sei settimane di schutzhaft con la moglie) e si rifugia a Basilea, città in cui matura una controversa svolta verso la tradizione, eleggendo a sua seconda patria la Svizzera (ove vive fino al 1974, se si eccettua il soggiorno londinese del 1946-49).
1939-45: durante la guerra, nella neutrale confederazione elvetica si sviluppano tutti questi semi, impiantandosi nel fertile terreno locale e incrociandosi con quelli indigeni (Max Bill, Cyliax, Walter Herdeg, Herbert Matter, Emil Schulthess, Alfred Willimann et alii, specialmente legati all’arte concreta e al movimento Abstraction-Création. Art non figuratif -al cui proposito, v. «Casabella», 1997, novembre, 650, p. 84).
1946: dopo che, sotto la guida di Emil Ruder, gli studenti della Allgemeine Kunstgewerbeschule di Basilea hanno ristampato alcuni capolavori della grafica degli anni venti, si innesca una violenta polemica tra Bill e Tschichold sul senso della modernità nella grafica, progressivo-trasgressiva per il primo, realistico-riflessiva per il secondo.
1955: Karl Gestner, grafico di Basilea (in partnership con Markus Kutter) preso ad esempio di capacità innovative da Bill, progetta e impagina un importante numero monografico di «Werk», dedicato alla grafica, che illustra -per il versante “persuasivo”- con il lavoro dello studio zurighese Odermatt & Tissi: è l’occasione per mettere a punto un concetto sachlich di “griglia”, quale tracciato regolatore e ordinatore nel progetto degli stampati.
1957: Max Miedinger, su richiesta di Edouard Hoffmann, disegna per la fonderia svizzera Haas un bastoncino destinato a planetaria fama e successo, il Neue Haas Grotesk, basato sull’Akzidenz Grotesk di stankowskiano apprezzamento: per la distribuzione sul mercato tedesco, da parte della Stempel nel 1961, viene ridenominato (omen nomen) Helvetica, un tipo fin troppo a tutti noto.
1958: inizia le pubblicazioni la rivista trilingue elvetica «Neue Grafik», con l’intento di «creare una base internazionale per la discussione della grafica moderna e delle arti applicate», frutto dell’impegno senza compromessi della “banda dei quattro”: Richard P. Lohse (responsabile di una fondamentale antologia, peraltro, sull’exhibition design); Josef Müller-Brockmann (autore, tra vari testi standard, di Gestaltungsprobleme des Grafikers, prima sistematizzazione del Raster Systeme); Hans Neuburg, collaboratore di Stankowski; Carlo Vivarelli, collaboratore di Antonio Boggeri (v. «Casabella», 1997, novembre, 650).
1967: «È nelle scuole di progettazione visuale di Basilea e Zurigo -spiega ancora Hollis, nel volume citato- che la grafica svizzera […] si consolida e si sviluppa. Negli anni settanta e ottanta, sia alcuni grafici affermati […] che una nuova brillante generazione di progettisti di manifesti lavorano liberamente su tali fondamenta. Adattano i loro metodi alla specificità di ogni singolo incarico, senza limitarsi all’Akzidenz Grotesk e al Helvetica o alle impaginazioni ortogonali che avevano tipizzato in stile la grafica svizzera. L’Akzidenz Grotesk, specialmente nei pesi più scuri, resta comunque il tipo preferito da Wolfgang Weingart, il più influente all’estero tra i giovani grafici svizzeri. […] Sin dal 1967, Weingart […] ha sostenuto con garbo il ruolo di enfant terrible, mettendo entusiasticamente in questione attitudini ereditate, provandosi in prima persona in una notevole produzione sperimentale. Suo portavoce è allora il mensile «Typographische Monatsblätter», le cui copertine (15 nel 1972 e 1973) […] vengono progettate per spingere il lettore “passo passo attraverso un lessico definito dai vari teorici della progettazione e della comunicazione […] la forma ignora i dogmi della composizione tradizionale e sfida le ideologie di progetto”. Weingart tiene un lungo tour di conferenze negli Usa nel 1972 e 1973; pubblica la conferenza -il cui tema è l’insegnamento a Basilea- nel 1976, con il titolo How Can One Make Swiss Typography? […] Weingart ha risospinto la grafica verso il campo dell’espressione personale, raggiungendo l’apice nella copertina che disegna per l’accademica rivista statunitense «Visible Language» nel 1974, ove scarabocchia No idea for this fucking cover today. Ma l’importanza di Weingart sta nel precoce suo riconoscimento delle nuove tecnologie […] si è confrontato in questa sfida con gusto inventivo, esplorando la fotocomposizione e la pellicola fotografica nel verso del collage di alfabeto e immagine».
1987 > New Wave: «Nel 1968, quando ho iniziato ad insegnare nella Allgemeine Kunstgewerbeschule di Basilea -commenta, nell’introduzione all’edizione inglese della conferenza che pubblichiamo qui, Weingart stesso, chiamato a insegnare a Basilea da Armin Hofmann (visiting professor anche presso la Philadelphia Museum School of Art e la Yale University sin dagli anni cinquanta)-, mi era chiaro che dovevo radicalmente ampliare le idee, le teorie e i limiti visuali della cosiddetta tipografia svizzera. […] Fondamentalmente, sono un autodidatta. Ciò mi ha permesso di non seguire mode, movimenti o stili. Tuttavia, la libertà che mi sono conquistato reclama una severa disciplina e senso di responsabilità. […] Allora, oltre vent’anni fa, nessuno poteva pensare che questo nuovo approccio visuale e questo metodo sperimentale potessero essere alle origini di quanto oggi è noto come New Wave. Negli ultimi due decenni, sono passati per il corso avanzato di grafica studenti di quasi 25 paesi, che oggi sono sparsi in tutto il mondo». La omologante New Wave americana, la Hybrid Imagery digitale narrata da April Greiman per prima, il decostruzionismo visuale statunitense affondano dunque le loro radici nella vecchia Europa, soprattutto forse nella radicale critica weingartiana di una “grafica svizzera” ormai ridotta a vuoti stilemi. Negli anni ottanta, la New Wave si nutre di (talora maldigerite) idee del Vecchio Mondo, prima di dilagare ovunque nei novanta, muovendo dalla California (ove si fa notare precocemente appunto Greiman, allieva di Weingart a Basilea, oltre a Lucille Tenazas, al sociologo David Carson che ha studiato grafica in Svizzera e, soprattutto, agli emigrés europei Rudy Van der Lans e Zuzana Licko), dalla Cranbrook Academy of Art (grazie all’azione pluriventennale congiunta dei McCoy; al proposito, v. «Casabella», 1997, aprile, 644, e giugno, 646), dal Mit (col seminale Visible Language Workshop di Muriel Cooper, editor di “Visible Language”), da Yale (luogo d’insegnamento di Dan Friedman, studente a Basilea e a Ulm, organizzatore del primo tour americano di Weingart, autore di Radical Modernism) e da New York (con l’anti-design, ad esempio, della M&Co. di Tibor Kalman -in seguito editor di «Colors»-, lo stile freddo di Willi Kunz -studente a Basilea-, il gusto olandese di Doublespace -un duo formatosi a Cranbrook).
Nella sua lunga marcia, sospinta da tramontana, la grafica svizzera, cavalcando la propria crisi dopo l’era passata di dominio imperiale del mondo, ha osato ancora volger la prua a Oriente, per tornare a buscar Occidente.

[Dal Nieuwe Beelding al New Wave, in “Casabella” (Milano), 655, aprile, pp. 48-63]

25.6.04

[1998#01] camuffo design

Chi?
Camuffo Design è uno studio di grafica di Venezia, fondato nel 1990, particolarmente attivo nel campo dell’immagine coordinata, della segnaletica, dell'illustrazione e degli eventi culturali - ricordate le mostre Pacific Wave, New Pop, David Carson?
Potremmo cavarcela così, ma forse la definizione vi sembra laconica (a me parrebbe efficace). Proviamo a dir altro, ma non garantisco.
Intanto, è chiaro che l’insieme è più della semplice somma delle parti; poi, come per i gruppi rock, anche Camuffo Design nel tempo cambia anche se restano gli stessi. Senza offesa per nessuno, il leader della band è Camuffo, che si chiama Giorgio, affiancato da Seba(stiano Girardi) e Massimo (De Luca), fedeli luogotenenti.
E ancora, sarebbero da nominare tutti quelli che sono passati e passano per la loro officina visiva: ciurme raccolte in vari porti, a navigare nel mare della comunicazione. Non chiedetemi l’elenco: è troppo lungo; a tutti, almeno grazie, per l’esito corale.
Che cosa?
Camuffo Design, studio di grafica? Spiegazione breve.
Design, più o meno, vuol dir progetto (non a caso, Giorgio è passato per le aule di architettura) ed è un parente stretto di disegno. Ergo, da loro si progetta e si disegna.
Studio: per progettare, studiano, cioè si pongono dei problemi, prima di divertirsi a risolverli, quando ci riescono.
Grafica: espressione di pensiero visivo; con le idee, risultato dello studio, si informano i contenuti, conformando visibili tracce (lettere, testi, immagini, suoni…) su un qualche supporto (carta e inchiostro e tutto il resto). Senza contenuti, zero grafica: solo odor di cipria.
Se vi interessa l’elenco dei clienti, avete sbagliato mostra.
Quando?
Tutto il tempo; come a dire, sempre. Non è un lavoro, è un’attitudine e una passione, talora un rovello, assai spesso condito di real fun. E tutto sempre più in fretta, ormai.
Forse volete sapere da quando? Non son più ragazzotti, ma neanche tardoni; diciamo che sono da almeno tre lustri al lavoro, includendo la gavetta. Vorreste un regesto cronologico delle loro opere, completi puntuali professionals credits? Onestamente, sottomano questa lista non c’è; e non importa, perché per fortuna loro sono occupati, a far “grafica” e nel continuare a pensare che cosa significa farla. Altrimenti, non saremmo qui a veder questa mostra.
Come?
Come, in fondo, è semplice e già detto: con le idee e i contenuti. La “grafica” è un mestiere pratico, un fare concreto; se troppa teoria l’avvilisce, una buona cultura l’esalta e la corrobora.
Come: se i mezzi contano relativamente poco (oggi è tutto digitale, comunque), la sapienza tecnica è fondamentale, come per ogni artefatto. Se non ci credete, andate in negozio di belle arti, comprate tela, pennelli, colori e fatevi un bell’autoritratto.
Perchè?
Piace loro e agli altri. È utile (talora). È divertente. È un bisogno insopprimibile della specie. Etc.
Il perché resta, alla fine, un mistero. Qualcosa spinge a comunicare, se hai alcunché da dire; altrimenti, potresti tacere, per favore?
Grafica
Appunti e spunti per il pubblico e gli addetti, di anonimo.
Inutile spiegare la grafica. L'arte non si spiega, ha altre cose da fare. La grafica è arte applicata; è bene che si applichi, perché sennò la boccio.
Oppure, è come l'Araba Fenice (variazione nel finale: cosa sia, nessun lo sa).
Ad libitum, scegliete una definizione per la grafica, è tutto gratis: cosmetica della carta stampata, interfaccia della comunicazione, informa cioè attribuisce forma al contenuto, il contenuto è la forma ovvero il primato delle idee?
Spiegazioni correnti, secondo l'età e la propensione degli intervistati, su chi sono i grafici:
1 . La fanno gli artisti, tipo incisioni e simili, ovvero multipli. Bella e non troppo cara, si valuta a cm quadrati. Si vende in tivù.
2 . La fanno i grafici, che sono gli studi pubblicitari: serve per decorare i panettoni e gli incarti delle caramelle, ma una volta era meglio: c'erano i manifesti per la strada, oggi si vede in tivù.
3 . Tutti possono fare i grafici col computer. Anche in edicola, a dispense, su cd-rom e multimediale.
4 . La grafica, col computer, è finita. Amen. Tutti a casa.
(Se indovinate il numero giusto, vincete una maglietta: chiedere all'ingresso)
Intermezzo
Come in un vecchio Carosello, grafica studio Testa, musichetta popòppoppopòpò: al risveglio dall'incubo, il protagonista canta felice "La grafica non c'è più, la grafica non c'è più".
Altra domanda: a che serve oggi la grafica? Risposta: La grafica è comunicazione; oggi tutto è comunicazione; la grafica è tutto. Grazie. Molto istruttivo.
Consoliamoci con l'etimologia. Grafica vien dal greco grafein, che vuol dire: scrivere disegnare dipingere. La minestra non è cambiata, da millenni.
Friends
Giorgio e C. m'han chiesto di scrivere qualcosa, per spiegare. Non c'è nulla da spiegare, è tutto da vedere. Chi non vede (in senso buono, senza offesa) qui è in difficoltà. Si può tentare di raccontarla ma non c'è rimedio. Almeno secondo me, che ci ho provato tante volte.
Friends sono gli amici. Giorgio e C. ne hanno tanti, per davvero. Chi ha un amico ha un tesoro: loro sono più ricchi del nababbo più ricco delle Indie malesi, che è il più ricco della Terra, dopo Bill dei computer. Giorgio e C. hanno fatto un sacco di grafica e di cotte e di crude, con i loro fren(d)s, che sono tra i meglio grafici - scusate un po' - che si possono trovare in giro; infatti, li hanno accattati da tutte le parti del mondo, ma soprattutto di lingua anglo-sassone (ecco perché li chiamano Friends!), anche perché nei paesi di tale lingua, i grafici li pigliano sul serio e gli fanno fare cose utili. Si chiama: cultura visiva, che è una cosa pratica e serve a tutti. In Italia, impara l'arte e mettila da parte; ma avete mai guardato la grafica degli ospedali, poste, ferrovie o altre istituzioni pubbliche, per non dir dei moduli o delle tasse del Bel Paese?
Infine: contano le idee? Certo, ma per come le esprimi. Cacca ben incartata resta cacca; ma un'idea mal realizzata è anche una cattiva idea. L'arte non è cosa ma come, ripete il saputone col ciuffo in tivù: che abbia ragione? Gli amici te lo ricordano, con discrezione e affetto, Giorgio e C.
Offumac
Io la penso così. Camuffo non si camuffa da Offumac. Né si tratta di dottor Jekill e Mr Hide (sic). Piuttosto, è un tipo dalla scrittura bustrofedica. Provare per credere. Tanto lo sappiamo che grafica vien dal greco grafein, che vuol dire: scrivere disegnare dipingere. Camuffo lo giri e vedi il mondo con un altro occhio, con l'altra parte del cervello: fa i disegnini, perché è rimasto bambino. Per fortuna. Poi ci sarebbe la questione che c'è una tribù, sono gli illustratori, bla bla bla, si fan pure le mostre e si parla d'arte. Non credeteci: anche loro stanno in una riserva, come i poveri pellerossa. Sempre meglio dei grafici, che non se ne sono neanche accorti. Ma che importa: bisogna credere, per provare.
Le storie di Offumac son bizzarre, come il nostro mondo. Ci sono i cattivi, i brutti, i puzzolenti ma non manca il lieto fine; a volte, ci sono i fini ma non i mezzi che li giustificano. Ma perché dovrebbero giustificarsi? Ci son tanti che parlano perché hanno la lingua in bocca e altrettanti che disegnano perché hanno la matita in mano; è vecchia come il cucco. L'importante, anche qui, è avere qualcosa da dire, aver sugo per l'espressione. Alorap id Offumac.

[testo di presentazione, nel catalogo Camuffare, a cura di Adriano Donaggio, della mostra Camuffare, galleria della Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia, settembre-ottobre, snp]
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