18.4.04

[1996#02] zuppa digitale

Zuppa digitale è il brodo primordiale della cultura contemporanea, la ribollita di una trasformazione radicale dei modi di conservazione, trasmissione e produzione dei saperi, dentro il grande calderone della comunicazione umana. Se siamo qui, è perché vorremmo saperne di più, ambiremmo a capire meglio cosa bolle in quella pentola, da parte di chi sta cucinando abilmente questa zuppa, preparando gli ingredienti e sperimentando i sapori in piatti appetibili che ne mettono alla prova delle ricette particolari, i cd-rom. Io vorrei proporre un breve spunto introduttivo, un quadro (certo non l’unico) entro cui è possibile collocare l’apparizione, la diffusione del digitale; un accenno, uno scorcio rapidissimo che si affida in qualche modo alla storia, che sempre dal presente è costretta a rivolgersi indietro, per interrogarsi sul senso di quanto accade. Molti parlano, per il presente, di surmoderno, come di un’era di eccesso e di dispersione, di accelerazione del tempo e di contrazione dello spazio, di perdita delle “cornici” entro le quali eravamo abituati a collocare i saperi e le pratiche. Oggi siamo, in altre parole, possiamo riconoscerlo tutti sinceramente, credo, di fronte a una straordinaria confusione: con-fusione culturale, nel senso proprio e intimo di fondersi insieme, di mescolamento, di ibridazione, di meticciamento, di trasfusione e di trasmigrazione, di cui non riconosciamo ancora il verso e gli indirizzi, che ancora non comprendiamo appieno ma che avvertiamo, giorno dopo giorno, agire in ogni campo dell’attività umana. Non si tratta, però, semplicemente di una questione di tecnologia, non è l’avvento atteso o inatteso del digitale a creare preoccupazioni apocalittiche o attese messianiche; ciò che è estremamente interessante, a mio avviso, sono le conseguenze di un passaggio nella tecnologia già avvenuto o, almeno, così avanzato e espansivo da non concedere troppi dubbi sulla sua crescente, ineluttabile pervasività e invasività. Ribollita, ho detto, però, iniziando a parlare: perché di conservazione, trasmissione e produzione dei saperi umani pur sempre si tratta; dunque, di cosa non nuova. Ormai è opinione diffusa, anzi direi concorde, non solo in sede scientifica, è insomma ampiamente condivisa l’idea che gli strumenti della comunicazione, i media attraverso cui gli uomini comunicano, influenzino direttamente il modo stesso di pensare degli uomini, cioè definiscano i caratteri propri delle società umane, che -come ha scritto Marshall MacLuhan- “sono sempre state plasmate più dalla natura dei media attraverso i quali gli uomini comunicano che non dal contenuto della comunicazione”. Se questo è vero, per comprendere il digitale, cioè il presente, è utile forse guardare indietro, alle trasformazioni epocali della comunicazione che ci hanno preceduto. Lasciando necessariamente da parte il problema delle origini o quanto meno dell’evoluzione del linguaggio, dell’emissione organizzata di suoni articolati significanti in una lingua parlata, e dunque il tema delle culture orali (situazione difficile anche solo da immaginare per noi, abituati alla parola resa visibile e riproducibile, quando invece il senso principe era l’udito, l’orecchio, e l’ascolto il centro, la fonte del sapere), dobbiamo ricordarci che le grandi trasformazioni storiche della tecnologia della comunicazione umana sono state in realtà poche: la scrittura nel IV millennio aC (cultura chirografica) “La scrittura -che secondo Ong- ha trasformato la mente umana più di qualsiasi altra invenzione” seimila anni fa, ma se ci riferiamo all’alfabeto che usiamo, diciamo 3500; la stampa alla metà del 400 (cultura tipografica), quella che ancora domina e a cui siamo avezzi, mentalmente, vecchia di soli cinquecento anni; l’elettricità/elettronica del passato prossimo, dal telegrafo alla radio fino alla televisione, tutte tecnologie legate a supporti analogici, materiali, fisici, atomici, per dirla con Negroponte, a cui credo si debba aggiungere oggi la discontinuità, la frattura del digitale, incarnato, reso visibile nel computer e nel monitor, il digitale che si fonda sull’immaterialità relativa dei bits, sulla riduzione estrema delle complessità della comunicazione/informazione a una dualità elementare (1/0, acceso/spento per dirla con analogie); ma un digitale che sembra decisamente in grado di restituirci superiori complessità di comunicazione/informazione, attraverso il sovrapporsi di strati, di meccanismi di interfaccia, di operazioni di traduzione di quegli stati elementarissimi binari in flussi strutturati per la umana comprensione, di generazione di interrelazioni potenti, quantitativamente e qualitativamente di dimensioni sconosciute, inedite, inesplorate ancora appieno. Conseguenza maggiore, principale di questo succedersi stratificato e sempre più rapido di media, di strumenti di comunicazione, è stata la possibilità di una circolazione sempre più veloce e a costi sempre minori dell’informazione, fino all’eccesso e alla dissipazione feconda e straripante (che diviene problema in sé) del nostro confuso surmoderno.
Vorrei concludere con un paragone, per avvicinarci ai temi della giornata, da prendere con le debite cautele, ma che ritengo utile. In fondo, è come se fossimo nel 1460 circa; Gutenberg aveva realizzato il primo libro a stampa da cinque anni, più o meno; non sapeva cosa stava facendo, dal nostro punto di vista, ovvero che stava cambiando il modo di pensare, mutando i modi di conservazione, trasmissione e produzione dei saperi. Non poteva saperlo, è destino comune alla comparsa dei nuovi media (la radio doveva servire la voce, ma è finita per distribuire il suono; e non diversa è stata la sorte del telefono, rispetto alle intenzioni degli inventori). Gutenberg voleva trovare il mezzo di realizzare una scrittura artificiale, voleva migliorare, ottimizzare quanto conosceva, quanto era proprio della sua eredità storica: la scrittura manuale. La sua scrittura artificiale ha definito invece il mondo della cultura occidentale, e il suo predominio nel pianeta, negli ultimi cinque secoli. I cd erano nati per contenere suoni, musica; e si sono poi rivelati di fatto un supporto assai flessibile, ben adatto al digitale in tutte le sue forme. Ma i cd-rom sono solo una modalità di distribuzione, una specie di prova generale di una più ampia interattività via monitor, o prefigurano una nuova, creativamente affascinante e necessariamente poco esplorata, forma di cultura, a cui non siamo ancora in grado di dare nome?

[Testo parziale dell’intervento al simposio L’editoria digitale, promosso dal comune di Venezia, tenutosi a Mestre, il 10 aprile 1996.]
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