20.10.04

[2002#09] abecedario

Prefazione

Questo volume raccoglie una ragionata selezione tra i tanti testi, di taglio in genere storico e intenti spesso divulgativi, che ho scritto nell’ultimo decennio, in occasioni e sedi diverse (taluni solo pronunciati, pochi altri inediti, altri ripresi più volte, come precisano le referenze editoriali al termine del volume), sui temi della grafica e delle immagini, delle scritture e delle lettere – nel senso più ampio dei termini, come suggeriscono le tre chiose – voci autoriali varie – poste qui in appendice, a mo’ di indirizzo critico alla lettura.
Pierpaolo Vetta si è assunto l’onere di dotare il volume di un coerente apparato iconografico, in grado di integrare i contenuti e illustrare le argomentazioni dei vari testi.
Lungi da ogni pretesa che il risultato sia una sistematica storia della grafica contemporanea, per la natura stessa dei testi (riediti così com’erano apparsi, con qualche minimo necessario ritocco), l’antologia è ordinata in due parti, la prima per temi e problemi (con un criterio legato ai contenuti), la seconda per protagonisti (con un criterio grosso modo cronologico).
Nella prima parte, ho esaminato con Tipologia i caratteri della “parola visibile”, dalle chirografie ai tipi digitali, in rapporto alla dialettica tra mezzi di tracciamento e supporto, auspicando l’avvento di quella neografia che -– con segreta soddisfazione – ho scoperto reclamata anche da Barthes; Architetture di carta si occupa in chiave storica di un artefatto grafico tra i più diffusi e significativi, il francobollo; Parlanti figure indaga il significato e il ruolo delle “illustrazioni”; a una forma peculiare di icone (segnaletiche e indicali) è dedicato Il ritorno dei pittogrammi; gli Appunti per una immaginaria voce di storia del pensiero visuale… propongono in maniera programmaticamente frammentaria una scaletta d’indagine a proposito di manifesti, cartelloni o poster che dir si vogliano; in Acrostico. ALTI/bassi riprendo un antico gioco scrittorio per discutere della situazione contemporanea della grafica; il gran calderone del digitale e dei possibili esiti di questa nuova forma di comunicazione è il tema di Zuppa digitale.
Alla luce delle ipotesi e dei temi discussi nella prima parte, il percorso storico della seconda parte procede per exempla: nella prima metà del novecento, a principiare da Peter Behrens, lungo una rotta segnata dai capisaldi delle sperimentazioni dei grandi costruttori sovietici El Lisickij e Aleksandr Rodcenko, del britannico Eric Gill e dei teutonici Jan Tschichold e Kurt Schwitters, nonché del Bauhaus, per giungere a Paul Renner & Paul Rand; La grafica svizzera… esamina il formarsi e consolidarsi di una specifica tradizione di “progettazione sistematica”, dal Nieuwe Beelding alla New Wave di Weingart, mentre il testo su Max Huber affronta la poco nota vicenda dei suoi esordi; l’excursus sui maestri, per la seconda metà del novecento, riprende dalla coppia Adrian Frutiger e Aldo Novarese, per discettare di tipi eccellenti, procedendo con due altri maestri italiani, quali Giovanni Pintori e Franco Grignani; il lungo testo su Wim Crouwel è occasione per tornare a scrivere di monoalfabeti e Paesi Bassi (suggerendo un metodo di indagine); alla biografia su Matthew Carter. Un uomo di caratteri fan seguito i testi su Erik Spiekermann, che affronta i temi dell’identità delle istituzioni e delle comunità urbane, e sull’ineffabile attività di Tibor Kalman; conclude l’antologia il saggio su Ed Fella, quale luogo di discussione sul vernacolare nella grafica statunitense contemporanea.
Pur asistematica, questa raccolta di testi ha un generale obiettivo critico, che la attraversa come un sottile filo conduttore: tentare di collocare l’attività che comunemente oggi si definisce “grafica” nel contesto che ritengo (non certo da solo) le competa e le sia proprio, tanto in termini storici che culturali. Nella storia dell’ominazione ossia nel lunghissimo periodo del farsi uomo (sapiens quanto faber) di una individua specie di primati a cui apparteniamo, il tracciamento di grafismi – prima astratti, ritmico-geometrici, poi raffigurativi, nelle ben note rappresentazioni cavernicole e in molti artefatti mobiliari “preistorici” – è attitudine altamente specifica (per taluni precedente la verbalizzazione), che data alcune decine di migliaia di anni ante Cristo. La “scrittura” di segni, da quelli preistorici (ove l’anteriorità alla storia sta tutta e soltanto nell’assenza di una scrittura testuale codificata) di cui non sappiamo discriminare le funzioni, se non per – spesso contrastanti e irrisolte, talora antistoriche – ragioni ipotetiche, alle più composite declinazioni presenti nella contemporaneità, ha contraddistinto il diffondersi e marca la presenza dell’uomo sulla terra. È indubbio che l’antropizzazione consista nella artificializzazione del mondo, nella costruzione e specializzazione progressiva di famiglie di artefatti, fabbricazioni assieme in variabili gradi protetico-utilitarie quanto comunicativo-simboliche: abiti ornamenti edifici sculture pitture attrezzi arredi libri macchine (lunga sarebbe l’elencazione) che dir si voglia. Nel nostro campo d’interesse, l’indagine storica (delle arti visive, in senso proprio) che non voglia esser miope nei propri fondamenti è esposta al confronto con un parco di artefatti grafici che si offre estremamente variegato e variabile per intenzioni autoriali e morfologie espressive, significati sociali e forme tecniche, modi di produzione e caratteri di ricezione. In quest’alveo amplissimo si può riconoscere il progressivo distanziarsi – senza mai completamente distaccarsi del tutto – nell’immagine (non a caso, l’etimo rimanda al significato di “doppio”) di scrittura e pittura, attività che il graféin greco ancora racchiudeva in uno. Con queste irrinunciabili premesse, la costruzione storica nell’ambito della “grafica” di nostro interesse può e deve scegliere i propri peculiari itinerari, individuandone i nodi più significativi, quali, ad esempio: l’accidentato percorso che si snoda dalle chiro-grafie alle tipo-grafie fino all’irruzione problematica del digitale, nel campo delle scritture testuali, in primis alfabetiche per noi occidentali; il percorso affine dei formati, dei proporzionamenti e dell’organizzazione dello sfondo/supporto materiale (papiro, pergamena, carta, monitor, per farla brevissima) in rapporto alle figure/grafismi (lettere e immagini) che vi sono campiti da strumenti, metodiche e tecniche di impressione altamente specifiche; infine, tra le molte altre chiarificazioni che premerebbe fossero acquisite diffusamente, la pertinenza della “grafica” contemporanea all’ambito del disegno industriale e più precisamente della progettazione visuale: disciplina specifica, che reclama addestramento inclinazioni strumenti adeguati, frutto di applicazione conoscenze e studio tutt’altro che improvvisabili e genericamente disponibili, al contrario di quanto parrebbe supporre la confusa nozione che ne ha la civilizzazione della nostra epoca.

Immagine
Dal latino imago, legato a imitare, la cui radice (attestata in area indo-iranica, baltica e celtica) è yem: col significato di doppio prodotto, frutto doppio, doppio. “L’immagine, in quanto segno, in quanto elemento di un sistema di comunicazione – ha scritto al proposito Roland Barthes –, ha un considerevole valore impressivo. Si è tentato di studiare questo potere di choc ma occorre essere molto prudenti: in quanto segno, l’immagine comporta una debolezza, diciamo una difficoltà notevole, che risiede nel suo carattere polisemico. Un’immagine irradia sensi differenti, che non sempre sappiamo padroneggiare; per il linguaggio, il fenomeno della polisemia risulta notevolmente ridotto dal contesto, dalla presenza di altri segni, che indirizzano la scelta e la comprensione del lettore o dell’ascoltatore. L’immagine si presenta invece in modo globale, non discontinua, ed è per questo che è difficile determinarne il contesto. Così, ciò che l’immagine guadagna in impressività lo perde spesso in chiarezza. Non bisogna dimenticare che la comunicazione è solo un aspetto parziale del linguaggio. Il linguaggio è anche una facoltà di concettualizzazione, di organizzazione del mondo, e dunque è molto più della semplice comunicazione. Gli animali, per esempio, comunicano molto bene tra loro o con l’uomo. Ciò che distingue l’uomo dall’animale non è la comunicazione, è la simbolizzazione, cioè l’invenzione di segni non analogici. Allo stato attuale, l’immagine rientra soprattutto nella sfera della comunicazione. È stato detto e ripetuto che siamo entrati in una civiltà dell’immagine. Ma si dimentica che praticamente non c’è mai immagine senza parole, siano queste sotto forma di legenda, commento, sottotitolo, dialogo”.


Grafica
In origine, graféin significa tanto scrivere che dipingere; donde qualcuno con felice immagine ha scritto – in rapporto al configurarsi della parola in un alcunché di visibile, a proposito del farsi figura del suono, in relazione al catastrofico passaggio alla storia, tramite le scritture, del mondo dell’oralità primaria (in cui s’è svolta la fantastica vicenda dell’ominazione, lungo decine di migliaia di anni) – del dividersi il mondo tra i popoli pittori delle ideografie e i popoli cantori degli alfabeti, in primis i greci, inventori delle vocali, otto secoli avanti cristo, e in sostanza perciò del nostro sistema di rappresentazione dei suoni della lingua. “L’unico evento storico che è coinciso con l’avvento della scrittura è la fondazione di città e regni, in altre parole l’integrazione di un gran numero di individui in un sistema politico e la loro suddivisione in caste e classi” – sottolinea appropriatamente Claude Levi–Strauss in Tristi Tropici. “La scrittura, in realtà, è ineluttabilmente sempre immagine – precisa Giovanni Lussu –. La tradizionale contrapposizione tra scrittura e immagine si rivela ingenua: sempre di immagini si tratta, strutturate in diversi modi e in diverse relazioni con il linguaggio. Non esistono immagini assolute, che abbiano in sé significati certi al di fuori dell’organizzazione che ne fa il linguaggio. La ricerca antropologica, come quella iconologica, mostrano che le immagini, per essere capite, devono configurarsi in sistemi di segni decodificabili; e si può osservare che una buona definizione generale di ‘scrittura’ è proprio ‘sistema di segni visivi decodificabili’. Ne consegue che i cosidetti ‘linguaggi visivi’, per poter essere portatori di significati univocamente comprensibili, devono essere ‘scritture’. La conclamata cultura delle immagini forse non è altro che la cultura della scrittura, liberata dai pregiudizi alfabetici”. “I nostri eruditi non hanno studiato a fondo che le scritture antiche: la scienza della scrittura – sottolinea Roland Barthes – non ha mai ricevuto altro che un sol nome: la paleografia, descrizione fine, minuziosa dei geroglifici, delle lettere greche e latine, abile mestiere degli archeologi nel decifrare antiche scritture sconosciute. Ma sulla nostra scrittura moderna, nulla: la paleografia si ferma al XVI secolo, e pur tuttavia come si fa a non immaginare che tutta una sociologia storica, un’immagine complessa dei rapporti che l’uomo classico intratteneva con il suo corpo, le sue leggi, le sue origini, potrebbe uscire da una siffatta neografia che ora non esiste? […] ma le scritture del XIX secolo? o persino quelle del nostro secolo?”.


Scritture esposte e estetica delle lettere
“Una scritta, una qualsiasi composizione alfabetica utilizzata in esterni, una qualunque scrittura esposta, nel senso più ampio del termine, non è mera espressione artistica con le forme dell’alfabeto o veicolo di valori estetici – ha chiarito Hermann Zapf –; prima di tutto, è strumento di comunicazione, per la trasmissione più semplice possibile di informazioni. Oltre ai caratteri alfabetici a stampa dei libri e dei giornali, ci si imbatte infatti in composizioni di lettere di ogni tipo, di giorno e di notte, sulle strade e nelle città. Una sviante confusione di segni è l’immagine che si ricava entrando in una città qualsiasi, oggigiorno. Il mondo intero è accomunato da questo disordine, da questo guasto al paesaggio e alle città. Chi è responsabile dell’inquinamento visivo delle nostre città? Talora parrebbe che le amministrazioni civiche siano gestite da ciechi o, meglio, da analfabeti della vista. Certo, gente che sa leggere e scrivere, ma è priva di ogni sensibilità nei confronti della qualità delle scritte e del loro uso. L’inquinamento grafico è planetario, e identico a Occidente come a Oriente. È dunque necessario rendere maggiormente consapevoli dell’importanza della qualità delle scritte i responsabili delle opere pubbliche. È deprimente vedere infatti quanto siano diffuse le scritte di scarsa qualità negli edifici. Un architetto non dovrebbe solo concepire un bel progetto; dovrebbe anche preoccuparsi dell’integrazione del suo nuovo edificio nell’ambiente. Lo studio delle scritte dell’edificio dovrebbe perciò esser parte integrante del progetto. L’ignoranza che rivela la scadente qualità attuale delle scritte negli edifici pubblici è particolarmente fastidiosa. In altri tempi, coloro ai quali erano affidate responsabilità collettive avevano un gusto più educato e il senso sia delle proporzioni sia del disegno delle lettere. Basti rammentare, al proposito, le costruzioni dell’impero romano, l’architettura barocca o quella coloniale: le iscrizioni sono qui in piena armonia con le proporzioni dell’architettura. Dobbiamo stimolare la discussione sulla segnaletica pubblica prima che sia troppo tardi. Il problema attuale è come allargare l’obiettivo alla segnaletica esterna tutta, che non significa solo alle città, ma anche al paesaggio in generale e, insomma, alla globalità del nostro ambiente visivo. L’inquinamento visivo cresce di giorno in giorno, e sostituire delle scritte è estremamente oneroso. In un’epoca di crescente consapevolezza dell’inquinamento in terra e in cielo, in un’era di maggiore responsabilità per la conservazione delle bellezze della natura, il comune cittadino dovrebbe essere sensibilizzato anche nei confronti dell’inquinamento visivo. Una proposta concreta, a tal fine, sarebbe quella di educare all’arte della scrittura fin dai primi livelli di scolarizzazione. Non è necessario apprendere le squisitezze della calligrafia; basterebbe conoscere le qualità positive o negative del disegno delle lettere, e distinguere tra buone e cattive proporzioni. In generale, una migliore educazione alle arti visive, alla comunicazione visiva e al ‘linguaggio visibile’ ci permetterà di evitare il protrarsi di quel danno al paesaggio che è rappresentato dalla presenza di scritte di cattiva qualità. L’educazione all’estetica delle lettere è fondamentale per istillare il senso delle proporzioni e dell’ordine visivo”.

Indice e referenze editoriali
Tipologia. I caratteri della parola visibile
Salvo marginali correzioni attuali, è lo stesso pubblicato con il titolo Tipologia in “Casabella” (Milano), 668, giugno 1999, pp. 68-75 (italiano) e 88-89 (inglese, col titolo Typology).

Architetture di carta. La grafica dei francobolli
A parte qualche lieve modifica e minime abbreviazioni attuali, è comparso con il titolo Architetture da incollare in “Casabella” (Milano), 660, ottobre 1998, pp. 36-41 (italiano e inglese, col titolo Paste-on Architecture). Ho ripreso il tema nell’articolo Minimo design pubblico, in “sintesi” (Perugia), 11, dicembre 2000, sn.


Parlanti figure. L’arte dell’illustrazione
In versione poco più ampia dell’attuale, si trova (inglese e italiano) nel catalogo della mostra New Pop, palazzo Fortuny, Venezia 1994, a cura di Giorgio Camuffo, Edizioni Arti Grafiche Friulane, Venezia-Udine 1994, con il titolo Talking Figures. Parlanti figure, sn.

Il ritorno dei pittogrammi. La semiosi si camuffa
Con qualche riferimento specifico ad autori di pittogrammi, omesso nella stesura attuale, è stato pubblicato con il titolo La semiosi si camuffa in “sintesi” (Perugia), 10, ottobre 2000, sn.

Appunti per una immaginaria voce di storia del pensiero visuale o, più precisamente, degli artefatti a stampa noti come manifesti
Scritto originariamente per il poster di una presentazione, è stato pubblicato in versione più ampia, con il titolo cartelloni. disegno industriale del manifesto, come testo introduttivo al lavoro grafico di Leonardo Sònnoli, in “dezine” (Treviso), 1, maggio 2001, pp. 10-11.

Acrostico. ALTI/bassi
Fa parte di una serie di acrostici su temi alfabetico/tipografici, alcuni editi in fogli sparsi (in occasione, ad esempio, della mostra di tipo-grafica Fahrenheit 451, tenutasi a S. Anastasio di Cessalto nel 1994). La versione attuale è stata pubblicato (in italiano), con minime differenze, come presentazione dei lavori grafici di Tassinari/Vetta, nel catalogo della mostra [4:3] 50 Jahre italienisches & deutsches Design, Kunst- und Austellungshalle dBD, Bonn 2000, a cura di Michael Erlhoff, col titolo Disordine grafico, pp. 312-313.

Zuppa digitale. Cultura dei cd-rom?
Testo parziale dell’intervento al simposio L’editoria digitale, promosso dal comune di Venezia, tenutosi a Mestre, il 10 aprile 1996.

Peter Behrens. Zeitgeist e caratteri
Sostanzialmente identico, col titolo Zeitgeist: le lettere di Behrens, è comparso in “Casabella” (Milano), 678, maggio 2000, p. 86.



El Lisickij. L’elettrobiblioteca del costruttore
Pubblicato, con minime differenze, come L’elettrobiblioteca del costruttore in “Casabella” (Milano), 680, luglio-agosto 2000, p. 88.

Aleksandr Rodcenko. Costruttori pubblicitari
Pressocché il medesimo testo è stato pubblicato, col titolo Costruttori pubblicitari, in “Casabella” (Milano), 682, ottobre, p. 92.

Eric Gill. Stone Carver
Senza variazioni di rilievo, si trova come Eric Gill / Stone Carver in “Casabella” (Milano), 686, febbraio 2001, p. 84.

Jan Tschichold. Fede e realtà
È il testo pubblicato, col titolo Fede e realtà, in “Casabella” (Milano), 688, aprile 2001, p. 94.

Kurt Schwitters. Merz ist Form: l’arte della tipografia
Il testo è stato pubblicato in “sintesi” (Perugia), 16, febbraio 2002, sn.

Bauhaus. Tipi, tipografia, tipofoto
Steso appositamente per questo volume.

Paul Renner & Paul Rand. Due maestri del novecento
Una versione con minime variazioni è stata pubblicata, come 2 x PR, in “Casabella” (Milano), 676, marzo 2000, pp. 85-86.

La grafica svizzera à la Wolfgang Weingart. Dal Nieuwe Beelding alla New Wave
In sostanza, è il testo pubblicato (in un servizio su Wolfgang Weingart, introdotto da una mia breve presentazione) col titolo Dal Nieuwe Beelding al New Wave in “Casabella” (Milano), 655, aprile 1998, pp. 48-63 (italiano e inglese, col titolo Wolfgang Weingart. From Nieuwe Beelding to New Wave), che ho approfondito nell’intervento Ascesa e crisi della “grafica svizzera”, introduzione alla lezione di Wolfgang Weingart, organizzata nella sala conferenze dell’Isia a Urbino, il 6 maggio 2000. Su Weingart sono tornato con L’arte tipografica di Wolfgang Weingart, in “sintesi” (Perugia), 9, giugno 2000, sn.

Max Huber. Note sull’astrazione concreta
La stesura attuale è (tranne qualche limatura) la versione originale del testo comparso (in inglese) come Max Huber. Thinking Through Images in “affiche” (Arnhem), 9, aprile 1994, pp. 46-51, pubblicato partim, col titolo Max Huber. Pensare per immagini, in “Casabella” (Milano), 650, novembre 1997, pp. 78-85 (italiano e inglese).

Adrian Frutiger. Petite Histoire de l’Univers
Senza troppe differenze, edito come Petite Histoire de l’Univers in “Casabella” (Milano), 669, luglio-agosto 1999, p. 84.

Aldo Novarese. La via italiana ai tipi
Al grande tipografo italiano ho dedicato una serie di testi, che è iniziata con il saggio (in inglese) Aldo Novarese: Letters Are Things in “emigre” (Sacramento), 26, spring 1993, pp. 30-37, e proseguita poco dopo con Aldo Novarese. Progettare l’alfabeto in “Arte|Documento|” (Udine), 7, 1993, pp. 339-344 (salvo qualche aggiustamento e poche abbreviazioni, quest’ultimo testo corrisponde alla stesura attuale). In memoriam, sono usciti due miei testi: il breve (in inglese) So long, Aldo! in “TypeLab Gaczeta” (Barcelona), settembre 1995, 3, p. 2, e (con parziali riprese dei precedenti) Aldo Novarese letterista 1920-1995, in “Casabella” (Milano), numero 0, dicembre 1995, pp. 44-47 - quest’ultimo idem in “Casabella” (Milano), 632, marzo 1996, pp. 46-49 (è rimasto, invece, inedito un necrologio che avevo scritto nel 1996 per “Abitare”). Più recentemente, un mio testo su Novarese, intitolato Alfa-beti: sintesi di scrittura e figura, ha trovato spazio in “sintesi” (Perugia), 8, marzo 2000, sn.

Giovanni Pintori. Effetto di sintesi
Il testo è stato pubblicato, in versione poco più ampia - intitolata Pintori, Omen Nomen -, da “sintesi” (Perugia), 12, febbraio 2001, sn.

Franco Grignani. Gestaltung visuale
Su Grignani ho pubblicato in “HQ High Quality” (Heidelberg), 3, 1995, pp. 34-39, un testo (in inglese) dal titolo The Gestaltung Primacy (nella edizione tedesca della stessa rivista, Das Primat der Gestaltung). La stesura attuale non è apparentata con quella di “HQ” ma è una riduzione del necrologio Franco Grignani (1908-1999) scritta per “Casabella” (Milano), 667, maggio 1999, p. 80.

Wim Crouwel. Monoalfabeti e Paesi Bassi
Con minimi ritocchi, si tratta del testo preparato, tra 1999 e 2000, per la riedizione critica in versione italiana del new alphabet, ancora work in progress.

Matthew Carter. Un uomo di caratteri
La presentazione del disegnatore di caratteri britannico è stata originariamente stampata al recto del poster disegnato da Leonardo Sonnoli, in occasione di un incontro con Carter a Pesaro, tenutosi il 24 aprile 1999. Comparsa, pressocché immutata, come Matthew Carter, uomo di caratteri in “Notizie Aiap” (Milano), 10, giugno 2000, pp. 41-42, è stata pubblicata, con qualche aggiustamento, sempre come Matthew Carter, uomo di caratteri in “Casabella” (Milano), 690, giugno 2001, pp. 76-83 e 95 (inglese, col titolo Matthew Carter. Man of Characters).

Erik Spiekermann. L’identità di Berlino
Pubblicato, in versione quasi identica, col titolo L’immagine della città, in “Casabella” (Milano), 634, maggio 1996, pp. 2-11 (italiano e inglese).

Tibor Kalman. And the Heat Goes On…
Necrologio pubblicato, in una stesura poco più ampia, come And the heat goes on… in “Casabella” (Milano), 670, settembre 1999, p. 84.

Ed Fella. Il vernacolo nella grafica statunitense
Dopo la presentazione del lavoro di Ed Fella, nell’ambito di Wanted Creativity - una iniziativa di Fabrica -, tenutasi a Catena di Villorba (Treviso) il 14 giugno 1997, ho pubblicato (in una versione con minime variazioni) il saggio Ed Fella, lettere dall’America in “Casabella” (Milano), 658, luglio-agosto 1998, pp. 50-61 (italiano e inglese, col titolo Ed Fella, Letters from America).


[Prefazione e indice/referenze di abecedario la grafica del novecento, Electa, Milano 2002, apparato iconografico a cura di Pierpaolo Vetta]

PPV (1955-2003)
ricordo di Pier Paolo
per Pierpaolo

il libro
l'opinione di Gabriele Toneguzzi

19.10.04

[2002#08] visual design


Dai grafismi al disegno industriale degli artefatti visivi
La presenza, a partire da questo numero della rivista, di interventi e articoli variamente modulanti i temi del visual design, della grafica e delle comunicazioni visive – se vogliamo metter tutt’assieme – ha un obiettivo generale e un comune filo conduttore che, al contempo, è un’esplicita intenzione critica: tentare di esaminare, indagare e collocare l’attività (ideativa, progettuale, produttiva) che comunemente oggi vien chiamata e individuata come “grafica” nel contesto che si ritiene le competa e le sia proprio, tanto in termini storici che culturali: il disegno industriale.
È perciò opportuna una premessa, in forma di breve prologo critico, nell’avviare il dialogo con chi legge; a una dichiarazione d’intenti è indispensabile, infatti, far corrispondere una prima chiarificazione di alcuni aspetti fondamentali, per offrire al lettore il punto di vista di chi ha il piacere e la fortuna di potersene occupare in questa sede.
Nella storia dell’ominazione ossia nel lunghissimo periodo del farsi uomo – sapiens quanto faber – di una individua specie di primati a cui apparteniamo, il tracciamento di grafismi (prima astratti, ritmico-geometrici, poi raffigurativi, nelle ben note rappresentazioni cavernicole e in molti artefatti mobiliari preistorici) è attitudine altamente specifica, per taluni precedente la verbalizzazione, e databile almeno ad alcune decine di migliaia di anni ante Cristo. In altri termini, la scrittura di segni, da quelli preistorici (ove una malpresunta anteriorità rispetto alla storia sta tutta e soltanto nell’assenza di scritture testuali) di cui non sappiamo discriminare le funzioni, se non per – spesso contrastanti e irrisolte – ragioni ipotetiche, alle più composite e complesse declinazioni presenti nella contemporaneità, ha contraddistinto il diffondersi e marca la presenza dell’uomo sulla terra. È indubbio, d’altra parte, che all’antropizzazione corrisponda una sempre più ampia e pervasiva artificializzazione del mondo, tramite la costruzione e specializzazione progressiva di famiglie di artefatti, di fabbricazioni assieme in variabili gradi protetico-utilitarie quanto comunicativo-simboliche: abiti ornamenti edifici sculture pitture attrezzi arredi libri macchine (lunga sarebbe l’elencazione) che dir si voglia, per esemplificare e semplificare.
Nel nostro campo d’interesse, una prospettiva di indagine critica e storica (delle arti visive, in senso proprio) che non voglia esser miope nei propri fondamenti è esposta al confronto con un parco di artefatti grafici estremamente variegato e variabile per intenzioni autoriali e morfologie espressive, significati sociali e forme tecniche, modi di produzione e caratteri di ricezione. In quest’alveo amplissimo si può riconoscere un progressivo distanziarsi – senza mai completamente distaccarsi del tutto – nelle “immagini” (non a caso, l’etimo d’immagine rimanda al pregnante significato di “doppio”) di scrittura e pittura, attività che il graféin greco ancora racchiudeva in uno. Tutto ciò premesso, è evidente come ogni costruzione storica nell’ambito della “grafica” possa e debba scegliere i propri peculiari itinerari. È necessario perciò azzardarsi a individuare i nodi più significativi e le loro articolazioni puntuali, quali, ad esempio: l’accidentato percorso che si snoda dalle chiro-grafie alle tipo-grafie fino all’irruzione problematica del digitale, nel campo delle scritture testuali, in primis alfabetiche (almeno per noi occidentali); il dipanarsi affine nei secoli dei formati, dei proporzionamenti e dell’organizzazione dello sfondo/supporto materiale (papiro, pergamena, carta, monitor, per farla brevissima) in rapporto alle figure/grafismi (lettere e immagini) che vi sono campiti da strumenti, metodiche e tecniche di impressione altamente specifiche; la dialettica tra artefatti elitari e forme della cultura materiale, che implica un peculiare dialogo tra l’autonomia delle ricerche espressive artistiche e l’evoluzione del gusto comune; la storicizzazione dei modi della rappresentazione, in rapporto alla riproducibilità tecnica, che potrebbe meglio chiarire i confini e i fini delle arti; infine, tra le molte altre chiarificazioni che premerebbe fossero acquisite diffusamente, la pertinenza della “grafica” contemporanea all’ambito del disegno industriale e più precisamente della progettazione visuale, del Visual Design (per ricorrere a una terminologia accettata dai più): disciplina specifica, che reclama addestramento inclinazioni strumenti adeguati, frutto di applicazione conoscenze e studio tutt’altro che improvvisabili e genericamente disponibili, al contrario di quanto parrebbe supporre la confusa nozione comune che ne ha la nostra epoca.
Per quanto concerne il panorama a noi immediatamente più vicino, a quel che purtroppo appare come un assai diffuso fraintendimento circa le specificità della “grafica” – tra l’altro, la si confonde troppo facilmente con la “pubblicità” – non è certo estranea la scarsissima cultura visuale del nostro paese (un vero problema storico, a cui la distrazione delle istituzioni pubbliche ha notevolmente contribuito), che bellamente ne ignora i protagonisti e la storia, in specie contemporanea. Il rilevante contributo italiano alla progettazione visuale nel novecento, del resto, è tanto un tema ricco di sorprese, quanto un terreno di articolate esperienze (in buona parte ancora da esplorare), come dimostra in queste pagine il puntuale articolo di Carlo Vinti sull’estetica grafica della “nuova tipografia” in Italia negli anni trenta.

[Dai grafismi al disegno industriale degli artefatti visivi, in “diid” (Roma), 2, dossier snp]

18.10.04

[2002#07] qualità della comunicazione


Qualità comunicazionale e identità istituzionale
Parafrasando un grande pensatore tedesco, si potrebbe dire che “qualità è perseveranza”: la qualità è figlia di passione e rigore, educazione e impegno.
“Vanamente si cercherà di dire ciò che si vede: ciò che si vede – ha scritto Foucault – non sta mai in ciò che si dice; altrettanto vanamente si cercherà di far vedere […] ciò che si sta dicendo”
Nell’ottobre 1925, le “Typographische Mitteilungen” di Lipsia pubblicano elementare typographie: un avvenimento centrale nella storia della grafica del novecento, che suscita in Germania un’eco subitanea di polemiche, consensi e conversioni, pronta a rimbalzare in fama universale. “1 La nuova tipografia – vi si legge, tra l’altro – ha un fine obiettivo. 2 Il fine della tipografia in generale è la comunicazione. La comunicazione si realizza nel modo più sintetico, semplice ed esatto possibile. 3 Per rispondere alle funzioni sociali della tipografia, bisogna organizzare le sue componenti, sia interne (contenuti), sia esterne (uso coerente di materiali e metodi di stampa). 4 Organizzazione interna significa limitarsi agli elementi di base della tipografia: lettere, cifre, segni, righe di caratteri […] Gli elementi di base della nuova tipografia includono […] anche l’immagine oggettiva: la fotografia. La forma di base del carattere da stampa è senza grazie”.

1
È necessaria una breve premessa teorica, una rapida cornice di ragionamento, perché la questione della qualità della e nella comunicazione è intimamente legata al tema cruciale della identità (di un ateneo come d’ogni altra istituzione, ente, organizzazione o impresa) . La questione è infatti irriducibile a scelte affidate semplicisticamente al gusto (educato o meno, esperto o ingenuo) di chichessia, relative a una ipotesi di visualità, piuttosto che a un’altra, comunque ideata e - si auspica - progettata a regola d’arte; se così fosse, se ci ponessimo questioni in termini di stile, cosmesi e moda, di incarti, confezioni e imbellettamenti, di balocchi, bijoux e profumi, si potrebbe e si dovrebbe procedere assai più speditamente e forse avremmo tutti potuto più proficuamente dedicarci ad altro, oggi.
L’aspetto della comunicazione che interessa in questa sede (la qualità) è invece strutturato e governato da un complesso intreccio di aspetti materiali e immateriali. La forma coordinata, stabile e sistemicamente coerente da attribuire ai mezzi e agli strumenti (materiali) di comunicazione (attraverso un parco preferibilmente minimo di elementi di riconoscibilità) serve a definire una identità: è un processo, non un dato. Serve cioè a render sensibile e visibile, a veicolare e a rafforzare una ragionevolmente durevole scelta di quei valori e di quelle qualità (immateriali) che l’istituzione vuole mostrare e decide di esprimere di sé. Una volta cioè che, nel caso di un ateneo, siano stati programmaticamente individuati, strategicamente decisi, tatticamente organizzati quelli che si intendono come i tratti appropriati, marcanti e pertinenti, di una fisionomia culturale, di una complessione civile, di un volto istituzionale: il proprio, nel bene e nel male, riflesso in uno specchio sincero ma ottimista, onesto ma sognatore -– all’egida, insomma, dell’astuzia delle colombe e del candore delle volpi, per dirla con Fortini. In altri termini, l’ identità è entità dinamica cioè capacità/qualità che comunica l’essere e il permanere di una determinata “cosa”: “questa” cosa, oggetto di conoscenza, e niente affatto un’altra. La qualità della comunicazione, nella nostra specifica prospettiva istituzionale, si fonda sulla dialettica tra scoperta e autodeterminazione di un sè identitario, di quel peculiare moto temporale che, sostanziando un che di specifico e sostanziale, rende ragionevolmente identici e consente un’identificazione non rigida ma essenziale.

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Se si accetta quello che, secondo diffuse teorie contemporanee (originariamente elaborate dalla scuola di Palo Alto), è considerato il primo degli assiomi generali della comunicazione umana e cioè che “non si può non comunicare”, è anche necessario sottolineare con forza la conseguenza che l’identità comunicativa di una istituzione riguarda tutte le occasioni/situazioni e tutti i mezzi/strumenti di comunicazione sensibili d’essa, in particolare – ma non esclusivamente – quelli visivi.
Nell’introduzione a un vero standard sul tema, quale Corporate Identity, per rispondere alla domanda: “che cos’è l’identità per le istituzioni?”, Wally Olins sostiene che “per essere efficace, qualsiasi organizzazione ha bisogno sia di un chiaro senso delle proprie finalità, comprensibili per chi ne fa parte, sia anche di un forte senso di appartenenza. Obbiettivi e partecipazione sono i due risvolti dell’identità. Ogni organizzazione è unica: l’identità non può che derivare dalle proprie radici, dalla propria personalità, dai propri elementi di forza e dalle proprie debolezze. Ciò è vero per la moderna impresa globale, così come è sempre accaduto per ogni altra istituzione nella storia, dalla chiesa cristiana agli stati nazionali”.
In buona parte, tali identità sono indirizzate e guidate dagli strumenti della comunicazione; per molte delle imprese contemporanee, la progettazione della propria immagine e la comunicazione della propria identità sono tra le più appropriate e potenti risorse disponibili per lo sviluppo e la competizione, come dimostrano gli investimenti che ad esse vengono riservati. Il coordinamento d’immagine delle istituzioni e delle organizzazioni umane non è però un fenomeno né recente né esclusivamente vincolato al mondo delle imprese, dell’industria e del mercato.

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A cosa servono i ragionamenti finora esposti, ai nostri fini?
Stando a Olins, sappiamo che la comunicazione identitaria si fonda su
1. obiettivi: cioè un chiaro senso delle proprie finalità
2. partecipazione: cioè un forte senso di appartenenza.
3. unicità: dato che ogni organizzazione è a suo modo unica
4. storia: poiché l’identità non può che derivare dalle proprie radici, dalla propria personalità, dai propri elementi di forza e dalle proprie debolezze.
Cercando di trarre una lezione pratica dagli esempi migliori (nella storia) della comunicazione pubblica, a proposito della “qualità” si può sostenere, in estrema sintesi, che:
1. i risultati più elevati si sono ottenuti attraverso il più ampio ed ecumenico coinvolgimento dei migliori progettisti disponibili e accessibili, rinunciando a improduttive forme concorsuali ecumeniche, assumendosi piuttosto il rischio di concorsi a selettivi inviti o anche a diretti incarichi.
2. la complessità intrinseca della situazione contemporanea (ossia la catastrofe digitale, altresì e al contempo foriera di “progressive sorti”) suggerisce (a esser sinceri, da almeno 3 lustri) una “sistematica non schematica” di progetto, da configurarsi con semplicità ed elasticità, prevedendone una realizzazione collaborativa, condivisa e fatta propria da tutti coloro che ne sono partecipi, come gestori e utilizzatori attivi, ad ogni livello
3. l’arretratezza della cultura d’identità (e, in generale, visuale) del nostro paese in qualche modo motiva e fa obbligo a luoghi di ricerca e educazione come l’università di proporsi quali luoghi di messa a punto metodologica, di sperimentazione elevata del tema, di configurazione e produzione di artefatti comunicativi d’eccellenza.
L’identità visiva è parte di un sistema più ampio, con cui si identifica e vogliamo si identifichi un’istituzione: la sua capacità di comunicare. La progettazione e gestione dell’identità visuale e, più in generale, della comunicazione sono perciò funzioni di ateneo e non delle singole strutture. Per usare un’immagine musicale: il problema non è di costringersi a ripetere sempre la stessa solfa, perché le esecuzioni possono essere le più varie nelle più diverse condizioni e formazioni, ma di saper accordare gli strumenti e di rispettare la tonalità in chiave della partitura, mantenendo così l’armonia generale, la scansione del ritmo, il senso della melodia, tanto che si tratti di un’orchestra quanto di un solo strumento a suonare.
È (non solo) mia profonda convinzione che la forza dell’identità visiva di una istituzione quale quella universitaria debba fondarsi, una volta impostata e decisa, su una continuità morigeratamente innovativa: sul ricorso seriale, sull’iterazione ben temperata, sul rispetto intelligente di pochi elementi, a tutto vantaggio dell’intellegibilità esterna e della progressiva coesione interna delle strutture, attorno a una distintà configurazione dell’istituzione: si tratta di un’inesauribile work-in-progress, che impegna anni e per anni impegnerà a mantenersi coerenti con una fisionomia in perenne lento mutare.

[comunicazione al convegno La qualità della comunicazione, in occasione dell’inaugurazione del CsdA, università degli studi di Reggio Calabia, 27 novembre]

17.10.04

[2002#06] non si può non comunicare


Non a caso, il titolo di questo libro (quel solitario emblema verbale in copertina che sottovoce ci chiede: Communication What?) termina con un punto interrogativo, con il più sinuoso e allertante dei segni d’interpunzione. Un segno unico, questo ? in copertina, indispensabile per dare significato al tutto, e allo stesso tempo plurale, per instillarci il dubbio che di significati veramente possa essercene soltanto uno.
Paiono evidenti, infatti, almeno tre ? e ad essi – però sostanziali – si limitano questi svelti appunti, per non tediare vanamente il lettore.
1, un punto interrogativo sulla comunicazione.
2, un punto interrogativo sulla sostanza, sul cosa, della comunicazione.
3, legittimamente, anche un punto interrogativo sulla stessa natura e forma di quanto avete tra le mani or che leggete, ossia: questo, che libro è?

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La comunicazione è un problema contemporaneo, forse il problema che meglio identifica il nostro tempo. Fatto sta che comunicare è un termine ambiguo, in senso problematico: significa tante cose, ma tutte insieme non stanno. Perciò è un problema. In sintesi estrema: comunicare (spiega l’etimologia) è sia “mettere in comune” sia “subire assieme un’autorità”. La comunicazione oscilla, insomma, tra poli estremi: tra il partecipare di una condivisione e l’essere sottoposti all’azione altrui. Comunicare è conflittuale incertezza tra dialogo e manipolazione, tra scambio e imposizione. E noi ci stiamo in mezzo, non sempre consapevoli, a volte drammaticamente, a volte allegramente. Volenti o nolenti, con la comunicazione tocca convivere: “non si può non comunicare”, secondo il ben noto assioma della scuola di Palo Alto.

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Sulla sostanza della comunicazione esiste una sterminata letteratura, una teorizzazione ricchissima, affascinante e molteplice, che ha impegnato alcuni dei migliori ingegni del novecento, in specie nella seconda metà del secolo trascorso, negli ambiti più diversi dei saperi umani, dalla filosofia alla semiotica alla psicologia cognitiva – e l’elenco delle discipline non è certo completo. Qui non se ne può certo dar conto, neanche lontanamente, se non per sottolineare ancora la problematicità del tema della comunicazione nella nostra società. Al di là di tutto, però, il ronzio sterminato e interminato della comunicazione, necessità e lusso, implacabile sottofondo del quotidiano a cui non possiamo sottrarci, in questa parte privilegiata del mondo impone un’altra domanda, a chi con noi comunica: almeno, hai davvero qualcosa da dirmi?

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Guardiamolo bene, riguardiamolo con attenzione questo libro. Un libro di comunicazione visiva? Può darsi ma non è così rilevante come si potrebbe credere. Non si può negare che si vedono sostanzialmente figure; certo non lo si legge nel senso di un testo verbale, quale tradizionalmente è un libro. Ma se è un libro da vedere, a che serve scriverne: “vanamente si cercherà di dire ciò che si vede: ciò che si vede non sta mai in ciò che si dice”, ha spiegato una volta per tutte Michel Foucault. Dunque uno scarto, ineliminabile, tra questi miei appunti e il resto. Allo stesso tempo, una felice confusione: questo libro confonde, cioè fonde assieme, rimescola le carte in gioco e rimette in allegra discussione la trama della tradizione. Il rinnovarsi delle cose, dei discorsi (verbali, visivi o altro che siano) può filtrare – almeno, così parrebbe – soltanto attraverso sottilissime fessure, ove il nuovo, l’altro, il diverso quasi si nasconde, per candido pudore o per falsa inverecondia non saprei. Per una di queste esili fessure, qui tracima, sgocciola, si raggruma e si raccoglie, in programmatico disordine e senza presunzioni didattiche, uno zibaldone zeppo di grafie autoriali. Guardiamo ancora: una sequenza ininterrotta e assieme discontinua di disegni, in pagine di segni che parlano di sé e, intanto, ci chiedono come e perché comunicare per segni. Una babele di idioletti, che restituiscono, in una discordante polifonia, il comune desiderio dei loro autori di mostrare (nuovi) significati condivisibili nell’esperienza quotidiana. Se per poesia si intende l’espressione dell’inaudito, della parola mai prima ascoltata eppur pronunciabile, si potrebbe ritenere che questi disegni siano immagini dell’invisibile, grafie di un mai prima visto eppur rappresentabile. Un libro d’arte - ma quale arte?

[intervento in AA.VV., Communication What?,ma edizioni, Venezia]

16.10.04

[2002#05] calendario


Il calendario è uno dei più antichi artefatti grafici nella storia dell'umanità, le cui tracce si perdono nelle notte dei tempi. Come la scrittura (nelle sue varie primigenie forme) ha reso visibile la parola, trasformando radicalmente la natura stessa della comunicazione umana, così il calendario (presente anche presso culture prettamente orali) ha reso visibile il tempo, iscrivendo e misurando nello spazio, tramite segni, il ciclo delle stagioni e dei giorni, i moti degli astri, della luna e del sole. Utile strumento per regolare le fondamentali attività agricole delle civiltà antiche, di cui rivela anche le profonde conoscenze astronomico-astrologiche, il calendario si è ben presto avvalso della scrittura per prender forma leggibile. Con ciò, il calendario ha sussunto anche una delle originarie motivazioni della scrittura, quella che si potrebbe definire "ragion contabile", legata alla proprietà e all'economia, allo scambio e alle sue scadenze, cioè all'organizzazione stessa della vita urbana e della struttura sociale, fin dal quarto millennio aC. Non a caso, la parola calendario deriva dall'etimo latino calendarium, che significa libro dei conti (e, per estensione, intero patrimonio di qualcuno), da calendae, il primo giorno del mese – tristes calendae scrive Orazio, giacché termine usuale di pagamento di debiti e interessi. Al contempo, informa il sempre prezioso, storico Dizionario di Nicolò Tommaseo (1830) che: "gli antichi Romani avevano calendarii, scolpiti in pietra, anche a uso dei villici, indicanti e le stagioni e le operazioni rurali e le feste", ossia che il calendario era già quel sistema coerente di scansione cronografica, evolutosi nell'elencazione suddivisa in mesi e giorni e quant'altro, quale l'intendiamo oggi. Precisa ancora il Tommaseo che si deve intendere per "Lunario, tavola o libro dove stanno registrati i giorni dell'anno solare […] per l'uso civile; il calendario, propriamente, per l'ecclesiastico". La storia dell'evoluzione di questa vera e propria tipologia di artefatto grafico è estremamente articolata, nonché ricca di episodi assai significativi, che qui non è possibile né ripercorrere né commentare nel loro svolgersi; tuttavia, è opportuno citare almeno due opere emblematiche di tale percorso. Nell'era tarda delle scritture manuali, poco prima dell'avvento della scrittura artificiale di Gutenberg, i manoscritti più diffusi e popolari erano i Libri delle ore: veri libri-calendari per uso devozionale. Capolavoro di questo genere è l'opera nota come Les Tres Riches Heures du Duc de Berry, commissionata da Jean, duca di Berry, l'appassionato bibliofilo fratello di Carlo V, re di Francia, ai celebri amanuensi-miniatori Limbourg, che l'approntarono per il principio dell'anno 1411. Le prime 24 pagine si offrono come una straordinaria realizzazione grafica; in ogni apertura, il foglio a sinistra mostra una illustrazione tematica (legata ai lavori stagionali), quello a destra l'elenco dei giorni, coi nomi dei santi: matura espressione di una delle forme più tipiche di questo artefatto visivo, il calendario illustrato. Pochi anni più tardi, ma già a rivoluzione tipografica in corso, uno dei più significativi incunabola è un'opera redatta da "Ioannes regio de monte", meglio noto come il Regiomontano, frutto della collaborazione di "Bernardus pictor de Augusta, Petrus loslein de Langencen, Erhardus ratdolt de Augusta". Si tratta del Calendarium, una sorta di calendario-almanacco astronomico, edito nel 1476 a Venezia (ove il maestro-tipografo Ratdolt si ferma fino al 1486), ricco di innovazioni significative nella storia della stampa. Non solo il Calendarium è il primo libro a fregiarsi di una pagina dotata di titolo, autore, data e realizzatori, entro una ricca cornice decorativa utilizzata in maniera inedita, ma è anche illustrato con 60 diagrammi di eclissi, stampati a due colori (nero e giallo) e un regolo girevole per il calcolo dei cicli solari. Ci siamo ripromessi di limitare i casi emblematici di calendari ai due sommariamente descritti ma si potrebbe continuare senza difficoltà, nel tracciare le molteplici rotte che portano questo apparentemente effimero artefatto grafico fino ai giorni nostri, fino al dilagare di stampati che scandiscono il tempo nei modi più vari, non di rado con seduttive armi che relegano in secondo piano la funzione propriamente cronologica, facendone banali oggetti di consumo e talora di collezionismo – si pensi al fenomeno dei calendari Pirelli. Non è inopportuno ricordare almeno che, nelle vicende della comunicazione visiva moderna, il calendario (oggetto sempre oscillante tra la grafica diagrammatica e la rappresentazione iconica) è stato ripetutamente tema di sperimentazioni d'eccellenza, affidato alle mani di grandi progettisti visuali -fino al limite estremo di alcuni calendari perpetui, entrati anch'essi a far parte della storia del design.
Sulla scia di questa vena sperimentale contemporanea, il calendario che accoglie queste brevi note di presentazione è stato progettato da dodici grafici italiani. Ha scelto di intitolarsi Carpe diem. Lettere italiane, non solo per richiamare filosoficamente – con la sentenza di Orazio – la perenne attualità del presente, ma anche per restituire un panorama trasversale della grafica italiana; all'interno di una filosofia comune nell'intendere il mestiere del grafico, la selezione degli autori propone una lettura incrociata di varie e non coincidenti inclinazioni: in ciò concorrono i dati anagrafici (si va, di decade in decade, dal 1923 di Provinciali al 1971 di Schiavi), i luoghi di nascita e operatività, la formazione, gli ambiti (editoria, pubblicità, grafica di pubblica utilità, discografia, illustrazione). I fogli di questo calendario sono al contempo delle metaforiche missive: dodici messaggi di altrettante interpretazioni del significato del ciclo temporale e dell'uso delle lettere artificiali della tipografia. Quest'ultime sono il filo rosso che percorre queste pagine. Paese di eccelsa tradizione tipografica (e, ancor prima, epigrafica), l'Italia ha progressivamente perduto il suo ruolo centrale nei successivi cataclismi che hanno trasformato il piombo in bit -si pensi, in tal senso, all'oblio storico-critico in cui versa la figura di Aldo Novarese. Questo calendario ambisce, immodestamente e con tutti i limiti del caso, a rinvigorire la ricerca e il dibattito disciplinare; possano, in tal senso, essere un contribuito i tipi ghiacciati di Provinciali, l'orologio temporale di Lupi, i caratteri "Lettera 22" di Monguzzi, la citazione piovosa di Sonnoli, le lettere tagliate di Tapiro, i legni retrospettivi di Croatto, i fototipi Polaroid di Gardone, l'alfabeto muto pompeiano di Vetta, il montaggio-Schwitters di Fanelli, la ripresa del Neon Nebiolo di Zaffini, la tipografia modulistica di Schiavi, il calendario dell'avvento di Messina.

[Calendario, in AA.VV., Carpe diem. Lettere italiane, calendario 2003 Scheufelen, Stuttgart]

15.10.04

[2002#04] neografia



Sgombriamo subito il campo da equivoci che possan generarsi dal titolo del mio intervento. Non intendo proporre alla vostra attenzione una nuova grafia, un nuovo sistema di scrittura, bensì l’idea (più ardita e assai ambiziosa) di una disciplina da mettere a punto, da definire, da organizzare teoricamente e criticamente, con il concorso e l’intreccio di altre discipline più consolidate e già dotate di loro nomi: d’altronde, è così che si forman le scienze e i saperi. E cioè, eccone una prima, primitiva ma precisa definizione: la neografia quale ambito di studi che si situa storicamente in successione rispetto alla paleografia, in modo tale che si possa completare il campo della storia delle scritture umane, immaginando un generale integrale sapere scientifico che si occupi di tutte le scritture, dell’insieme di questi specifici sistemi di segni visivi decodificabili, dalle (imprescrutabili e perciò mitiche) origini alla contemporaneità. Quale migliore occasione, per il concreto avvio e la discussione di questa nuova disciplina, di un congresso che si occupa proprio dell’aspetto marcante e centrale (anche se non unico) della neografia, cioè del principale luogo ove annualmente, convergendo da tutto il mondo, si discute di tipo-grafia, della scrittura di lettere tramite tipi.

primo punto
Lettere
È necessario ricordare a mo’ di premessa che i nostri “tipi” son segni che stanno per dei suoni: come tali, derivano dalle lettere delle scritture naturali, dalle chirografie alfabetiche. Si tratta, in altri termini, di sistemi di notazione manuale delle emissioni fonetiche, fondati sulla rappresentazione in particole discrete delle componenti del tessuto sonoro verbale. Sono forme di codificazione della comunicazione, della lingua e dunque del pensiero, radicalmente diversi, in quanto a economia mediale e diffusiva del sapere, rispetto ai sistemi ideografici o sillabici, peraltro tuttora in uso in ampie aree geografiche. Le scritture infatti hanno lasciato le loro prime tracce documentate circa seimila anni fa, quando tratti grafici ripetibili e riconoscibili hanno per la prima volta reificato, isolato, spezzato, informato e reso distinto il continuo auditivo della comunicazione in pittogrammi (segni questi che rappresentano immagini invece che suoni) concettualizzandola in simboli, trasformando radicalmente i caratteri (potentemente conservatori, formulaici, paratattici) della cultura orale - alma mater di ogni forma di comunicazione umana. Solo assai più tardi, attraverso un lungo processo genealogico, che non dobbiamo necessariamente considerare evolutivo (come invece dimostra il diffuso pregiudizio alfabeto-centrico della nostra cultura), il tessuto sonoro della lingua si è rappreso in lettere, in segni di suoni, distraendosi, opponendosi dall’originaria immagine figurale di cose/idee rappresentabili, per farsi codice altrimenti condivisibile. L’invenzione - se così si può definire - delle vocali, la loro trascrizione in lettere è frutto del mondo ellenico, è di pochi secoli anteriore all’era cristiana, esito di una atomistica percezione della struttura fonetica della comunicazione orale: la vocale ha dato, ha conferito, ha strutturato il primato (ribadisco, occidentale) della voce, che ancora caratterizza il nostro modo di pensare la scrittura. La conseguente estrema riduzione dei segni alfabetici (inferiori ai trenta) operata dai greci meno di tremila anni fa, rispetto agli assai più complessi sistemi sillabici medio-orientali anteriori, ha resa visibile - in modo straordinariamente efficace, preciso ed economico - la parola, per riversarsi nel sistema dell’alfabeto latino, delle lettere romane, tuttora egemone in occidente. Con ciò si è imposta anche l’idea comune e appunto pregiudiziale che la scrittura sia una trascrizione, una sorta di neutro strumento di riversamento dell’auditivo nel visivo, rimuovendo quanto di tattile si nasconda comunque nelle sottigliezze del percettivo: quanto sia la mano (seppur tramite la tastiera) a scrivere, protetico strumento del cervello.

secondo punto
Alfabeti
La matura conquista classica dell’alfabeto risulta, dunque, in un codice notazionale di lettere, in un convenzionamento di segni decodificabili tanto efficace dal punto di vista delle prestazioni quanto semplice da tracciare e apprendere, dotato di notevole stabilità tipologica nella propria configurazione ma non perciò sottratto a continue variazioni morfologiche lungo l’asse del tempo.
Vi è di più: ogni scrittura diviene visibile, si realizza, si effettua solo nel suo materiale farsi segno fisico; ogni impronta letterale, in specie, è risultante dell’interazione tra due vettori, applicati a un codice di configurazione: lo strumento che traccia e il supporto su cui si traccia. A seconda della loro natura, la storia - in estrema sintesi - ha visto evolversi e trasformarsi gli alfabeti, lungo poco lineari percorsi, in due filoni: le “archigrafie” e le “calligrafie”, per usare delle etichette di comodo. Nelle prime, risuona l’accezione più antica dell’etimo stesso di “grafia”, il greco “graféin”: scavare, raschiare, scalfire, incavare, incidere - “sémata grápsas en pináki”, “incisi i segni nelle tavole”, si legge nell’Iliade. È il lavoro dello scalpello (di ogni strumento atto a togliere o incidere la materia del/dal supporto, come per lo scultore) che ha disegnato pazientemente, nelle tre dimensioni, per asporto e scavo, l’enorme parco testuale graffito in stele, lapidi, fregi e insigni monumenti classici, vero libro parlante dell’antichità, privilegiato ambito dell’epigrafia.
Da una parte, dunque, uno strumento “duro” che tramite rilievi (un levare tratti positivi o negativi) scrive lettere definite da contrasti chiaroscurali: l’archigrafia come pratica incisoria monogrammatica, dal lento tracciamento, che non sopporta indecisioni né tantomeno errori; scrittura di lunga durata in supporti durevoli e sostanzialmente immobili, dal segno strutturalmente lapideo, intimamente connesso con le qualità proprie del materiale per eccellenza dell’architettura. Il repertorio che chiamiamo comunemente “maiuscole” ne è il lascito evidente, nella polistratificata storia del complesso artefatto alfabetico. La capitale dei monumenti romani, che in epoca imperiale si arricchisce dei tratti terminali noti come “grazie”, è una delle due componenti sostanziali del nostro alfabeto, di eccezionale unitarietà formale e coerenza in un arco storico-geografico plurisecolare, obbediente a dettati percettivi rigorosi quanto rifuggenti geometrie elementari, in virtù di una plastica sensibilità alla luce.
Dall’altra parte, invece, uno strumento “molle” che scrive lambendo e coprendo il supporto di uno strato, lasciando una saliva, un succo, una bava sulla scia del proprio passaggio. La “calligrafia” come tracciato bidimensionale, macchia, opacità: lo strumento tracciante (calamo, penna, pennello, pennino e simili, propri anche al pittore) è un deposito meno durevole di liquidi scuri e oscuranti, che non toglie ma aggiunge sulla superficie del supporto un visibile indizio del proprio passaggio. L’orma piatta del movimento continuo della mano e non l’urto di una abrasione vela un fondo neutro e assorbente, facendo della lettera figura su sfondo. Dunque, una scrittura in cui risuona l’altra polarità che convive nell’etimo “graféin”: dipingere, figurare, rappresentare; in essa, la piacevole venustà delle tracce, la tattile sensuosità delle grafie, la scioltezza del tratto trova individuale, personale, autoriale espressione. Tendenzialmente continua, fluida, la “calligrafia” esalta la velocità di stesura, il valore figurale dei segni, la loro possibilità di legatura nei poligrammi delle parole e delle abbreviazioni; scrittura di relativamente breve durata in supporti effimeri e sostanzialmente mobili, dal segno strutturalmente morbido, intimamente connesso con le qualità proprie di materiale per eccellenza del disegno artistico, quale la carta. Alla vis sottrattiva della “archigrafia”, corrisponde dunque la natura additiva della “calligrafia”, il cui lascito più forte nella storia del repertorio alfabetico è non a caso la famiglia di lettere che chiamiamo “minuscole”, al termine di un plurisecolare processo di elaborazione corsiva, tachigrafica della lettera rustica latina, cioè delle forme di scrittura classica non monumentali.

terzo punto
Tipi
I tipi mobili di Gutenberg sono invece oggetti fisici, tangibili, manipolabili, discreti: lettere a rilievo in blocchetti di lega di piombo fuso, costitutivamente isolate e separate le une dalle altre, veri tridimensionali monogrammi (come ci ha insegnato Giovanni Anceschi nel suo fondamentale Monogrammi e figure, al proposito), monogrammi che vengono affiancati, a rovescio, a comporre le parole, le righe, le colonne, le pagine dei testi. Unita in una forma, la pagina di piombo viene inchiostrata e la sua impronta si trasferisce a pressione sulla carta, scavandola leggermente e depositandovi l’inchiostro. Questa, sommariamente, la stabilissima tecnologia che si trasmette inalterata dalla metà del quattrocento fino alla seconda metà dell’ottocento, resistendo fin quasi i giorni nostri. Le singole fusioni metalliche dei tipi sono ricavate da matrici che ripetono la forma dei punzoni, gli originali incisi (in serie di diverse dimensioni, con opportune correzioni ottiche al variare dei “corpi”) dai progettisti delle lettere o da abilissimi interpreti di altrui disegni alfabetici. La storia dell’evoluzione del disegno dei tipi è stringentemente legata al gusto e alla sensibilità architettonica dei tempi, forse più d’ogni altra forma d’arte, per la stringente metrica di reciproci rapporti finissimi e l’inesorabile controllo proporzionale che reclama. Ai nostri fini, che qui non possono essere quelli di ripercorre tale storia ma soltanto di individuare un’epocale frattura ultima, basta rilevare tre fattori basilari.
Il primo è la contraddittoria condizione iniziale in cui si trovarono i progettisti dei tipi: tentare di replicare al meglio il disegno, il modellato, la fattura di superbe qualità calligrafiche e poligrammatiche delle lettere scrittoriali, chirografiche, amanuensi, insomma la tradizione millenaria in cui vivevano, con un mezzo intrinsecamente monogrammatico. Sia la straordinaria ricchezza di glifi (impercettibili varianti della stessa lettera, in tipi da usarsi in specifici accoppiamenti) della editoria umanistica e rinascimentale, a cominciare dai tipi aldini (tra l’altro, con l’invenzione del carattere corsivo), sia le sottili correzioni ottiche al variare delle misure dei tipi della più schietta tradizione tipografica, ne sono prova e conseguenza diretta, che i secoli provvederanno a stemperare fino a quasi cancellare dal secolo scorso, attutendo progressivamente una sofisticata quanto diffusa sensibilità percettiva degli equilibri visivi nella composizione letterale della pagina.
Il secondo è il trionfo dell’umanesimo italiano nei tipi: il rinascimento impone all’occidente l’alfabeto latino, la tonda chiarezza della littera antiqua (non dimentichiamo che la stampa era nata, da poco, con i neri angolosi tipi gotici di Gutenberg) o, meglio, quella originale reinterpretazione dell’antichità classica che è ai fondamenti della risorgenza delle arti nella penisola. Conseguenza ne è la strutturazione finale dei tipi in due “casse”, compresenti in ogni alfabeto completo: gli alti archigrafici, le maiuscole, le lettere capitali quadrate di eredità romana; i bassi calligrafici, le minuscole, lettere che avevano trovato forma ultima nella rinascita carolingia, quasi mezzo millennio dopo - a cui deve aggiungersi una moltitudine di segni analfabetici (dagli accenti alle interpunzioni varie) e le cifre, d’origine indiana, ascendenza araba e diffusione solo due-trecentesca in Europa.
Il terzo aspetto è l’intrinseco legame tra strumento tracciante e supporto anche nella tipografia, tra piombo inchiostro carta: una relazione ibrida, uno strumento “duro” che scava il supporto per depositare una traccia liquida, come gli strumenti “molli”, insomma una sottrazione assieme a una addizione.

conclusione
Neografia
La tecnologia della “officina gutenberghiana”, il materiale medium dell’attività scrittoria post-amanuense, si è consolidata in oltre 500 anni. Il disegno dei caratteri “mobili” della scrittura artificiale, il progetto dei “tipi” (seriali e componibili) della letteratura a stampa è il prototipo stesso del disegno industriale, di quella rivoluzione industriale che muterà il mondo dalla fine del settecento a partire dalla Gran Bretagna, ma di cui la stampa, come processo d’ideazione, produzione, distribuzione e consumo ne è l’antesignana. È certo che il tipo, il carattere a stampa è un artefatto umano che ha subito una verifica d’uso (oltre che di quantità di qualità) come pochissimi altri, come soltanto gli strumenti e gli utensili basilari e fondamentali della civiltà umana.
Non a caso, l’estrema stabilità della tecnologia gutenberghiana fa sì che, per secoli, il progetto dei tipi evolva lentamente ma significativamente attraverso variazioni morfologiche in relazione diretta e reciproca con i tre fattori che abbiamo appena trattato. Gli ultimi decenni dell’ottocento, però, mutano e sviano la grandiosa tradizione secolare di paziente ricerca e di lento perfezionamento tipografico. La comparsa di macchine compositrici meccaniche, quali la Linotype e la Monotype, a sostituzione della lunga preparazione manuale del testo, accoppiata alla diffusione del pantografo, quale strumento per ottenere il disegno dei tipi a partire da un unico modello per ogni dimensione, segna con la fine dell’ottocento l’inizio di un processo di crisi che il novecento ha amplificato. Nella seconda metà del novecento, con una accelerazione invasiva dalla seconda metà degli anni ottanta, è mutata radicalmente tutta la fase di preparazione, la “prestampa”: la fusione “a caldo” dei tipi è ormai archeologia industriale (e nostalgia, talora), sostituita prima da procedimenti “a freddo” di fotocomposizione e oggi dal virtuale dei computers. Dopo la chirografia e la tipografia, è comparsa una nuova scrittura e bisognerebbe trovare un termine adatto: infografia, digigrafia, bitgrafia, non so. Comunque vogliamo chiamarlo, il tipo digitale, che si materializza al positivo in una pellicola plastica, ha eliminato il piombo secolare. I progettisti di lettere, già dagli anni sessanta, si sono trovati di fronte a incertezze e problemi analoghi ai punzonisti dell’umanesimo: prima tentando di tradurre in “numerico” il repertorio storico di tipi nati dai punzoni per il piombo e rinati per le macchine compositrici, poi ponendosi la questione critica della coerenza tra sistema strumental-produttivo e disegno delle lettere. Le prime lettere digitali erano formate da una sempre più fine matrice di punti; la tecnologia si è rapidamente evoluta (alla fine degli anni ottanta, con il linguaggio PostScript di descrizione di pagina, fondamento della prestampa odierna), offrendone una descrizione geometrica vettoriale scalabile delle lettere, che le riduce a pantografi digitali - una serie di esperimenti (come i MultiMaster) ha tentato senza grandi esiti di porre rimedio a questa condizione di povertà, ereditata dall’ottocento. Il desktop publishing, l’editoria elettronica da scrivania, ponendo nelle mani di tutti formidabili strumenti di disegno digitale dei caratteri (ma ripeto, possiamo ancora chiamarli tipi?), ha avviato al contempo una impetuosa rinascita dell’arte del disegno delle lettere in tutto il pianeta, che nel corso degli anni novanta è andata esplodendo, non solo in termini quantitativi. Una nuova consapevolezza della natura originale, unica e complessa, del tipo digitale si va diffondendo, con una diversa maturità problematica, dopo l’orgia spesso indigesta di tanta produzione contemporanea, sospesa sull’onda di entusiasmi neofiti, intemperanze trasgressive e appetiti di mercato. Il tipo digitale deve rispondere, del resto, a esigenze più ampie e diversificate del tipo disegnato per la stampa.
Da una parte, l’affermazione evidente del monitor, dello schermo (inclusi quelli dei palmari e dei cellulari e quant’altro vedremo) come nuovo supporto della comunicazione, radicalmente diverso dalla carta (non ultimo il fatto che assorbe la luce, invece di emetterla) pone una pressante urgenza di disegno di alfabeti per lo schermo, in cui si sono impegnati alcuni tra i più sensibili progettisti attuali - e poi sullo schermo, le lettere possono anche mutare colore, contorno, disposizione nonché muoversi o emettere suoni, ammesso che tutto questo abbia un senso.
Dall’altra, anche restando nel campo degli alfabeti per la stampa, la solida eredità della più conservatrice delle arti, la tipografia, implica a suo modo dei pregiudizi, formali e concettuali, difficili da rimuovere, in assenza di una più diffusa frequentazione critica dei problemi e delle vicende storiche - tra gli operatori tutti del settore -, che non può prescindere dalla conoscenza delle tecniche.

Delle domande, ora, per esemplificare, prima di concludere.
Nello scegliere, ad esempio, un carattere a stampa come il Bembo è utile sapere che questo è stato ridisegnato nel 1929 dalla Monotype per il suo sistema di composizione, sulla base di un tondo disegnato a Venezia da Francesco Griffo per Aldo Manuzio nel 1495, accoppiato a un corsivo ispirato da un alfabeto disegnato ancora a Venezia da Giovanni Tagliente negli anni venti del cinquecento, e che la serena qualità rinascimentale reinventata nel piombo novecentesco non si è persa fortunosamente in seguito nella versione digitale?
È significativo sapere che l’ubiquo Helvetica di Max Miedinger, della metà degli anni cinquanta, non è altro che un fortunatissimo banale remake del robusto, giusto centenario Akzidenz Grotesk?
Dice qualcosa il fatto che un altro carattere eccellente del novecento, il Times New Roman dell’inizio degli anni trenta è un vero pastiche: costruito su assi umanistici, con proporzioni manieriste, pesi barocchi e finitura neoclassica?
Fino a che punto è legittimo, insomma, il riversamento digitale di tipi disegnati per la composizione a mano, al fusione in piombo e la stampa a pressione, a partire dalla crisi tardo-ottocentesca fino ad arrivare nell’occhio del “ciclone” digitale attuale, che a tante serie di caratteri lascia il sapore dei “traduttori dei traduttor d’Omero”?
Che cosa significa, dopo il trionfo degli strumenti di progetto sulle idee dei primi alfabeti digitali, aprés le déluge di una decostruzione sui generis, il ripiegamento in un apparente ritorno all’ordine a cui assistiamo, con il redesign di Baskerville e Bodoni vari negli ultimi tempi?
La forte tendenza al recupero delle legature, dei glifi, della figuralità “calligrafica” e i tentativi di correzione ottica di molte delle più interessanti serie alfabetiche digitali contemporanee è l’unica chance che il digitale offre, all’egida di un “recupero” intelligente del passato, della “conservazione” del patrimonio storico dei tipi?
Le radicali ricerche del moderno (con i suoi rigori geometrici, il sogno dei monoalfabeti e analoghe sperimentazioni) non meritano anch’esse una attenta riflessione che vada oltre la ripresa banale delle semplici fattezze?
Oggi, il problema non è forse ancora lo stesso che attraversa la storia intera delle grafie, e pur tuttavia ancor più complesso per la pluralità dei mezzi attuali, cioè quello della forma appropriata e non della “bella forma”, di una adeguata coerenza di relazione tra disegno (digitale) della lettera, strumento tracciante e supporto, quali e comunque essi siano?

Queste alcune tra le molte altre domande possibili che non hanno ancora trovato adeguata risposta in un ambito coerente, strutturato di studi e ricerche, che certo settorialmente e talora eruditamente non mancano. Si torna al mio enunciato iniziale, come questione e domanda assolutamente indispensabile e preliminare, a mio avviso. Non è giunto ormai il tempo di dotarsi di strumenti, teorici e progettuali, e di repertori metodici, atti ad affrontare e dar corpo disciplinare a ciò che ho proposto di chiamare la scienza della “neografia”, rispettivamente moderna (dal quattrocento all’ottocento) e contemporanea (dall’ottocento a oggi)? Non è forse matura la situazione per disciplinare, per far disciplina della conoscenza di quanto è il naturale seguito storico della paleografia, nel conformarsi delle lettere artificiali in forme tipografiche e oggi digitali, non solo nell’ambito occidentale ma in quello planetario, seguendo e analizzando al contempo l’evolversi delle scritture manuali e delle altre grafie (pittogrammatiche, logogrammatiche, diagrammatiche e così via) che marcano il mondo d’oggi come un immane immaginario testuale?

Proprio con quest’ultimo genere di interrogativo terminavo, con un certo timore di manifestare presunzione e di dar prova d’accademismo, il testo di un mio saggio, pubblicato qualche anno fa da “Casabella”, sulla tipologia, tema che stamattina sarà svolto da Giulio Carrucciu. Non nego il conforto e il piacere di aver scoperto successivamente, leggendo le postume Variazioni sulla scrittura di Roland Barthes pubblicate da Einaudi nel 1999, che avevo ripetuto un’ipotesi reclamata dal grande intellettuale francese proprio -in quel prezioso, problematico e acuto volume. E con la citazione di quell’autorevole conferma termino il mio intervento: “I nostri eruditi – afferma Barthes – non hanno studiato a fondo che le scritture antiche: la scienza della scrittura non ha mai ricevuto altro che un sol nome: la paleografia, descrizione fine, minuziosa dei geroglifici, delle lettere greche e latine, abile mestiere degli archeologi nel decifrare antiche scritture sconosciute. Ma sulla nostra scrittura moderna, nulla: la paleografia si ferma al XVI secolo, e pur tuttavia come si fa a non immaginare […] una neografia che ancora non esiste?”.

[intervento al congresso internazionale ATypI 2002, The Shape of Language, auditorium della tecnica, Roma, 21 settembre]

14.10.04

[2002#03] caratteri d'italia 1

L’Italia s’è desta? Forse s’era solo distratta; al peggio, leggermente appisolata. Fuor di metafora – e di riferimento al patrio inno di Mameli –, la situazione italiana – lo stiamo verificando – è diversa da come si crede comunemente, soprattutto all’estero. E cioè anche l’Italia ha i suoi disegnatori di lettere e caratteri, digitali ovviamente, e non son pochi. Ma prima di dar voce a quelli che ho invitato oggi qui, quattro annotazioni, quattro osservazioni introduttive.

Prima annotazione
Vorrei ribadire il fatto che il disegno dei caratteri fa parte, è materia (dal punto di vista scientifico, didattico e professionale) che pertiene strettamente al disegno industriale, più precisamente a quel vasto campo dell’industrial design che si chiama visual design: la grafica, in italiano. I caratteri son frutto del lavoro di disegnatori che dovrebbero esser educati alla calligrafia e alla neografia (di cui ho parlato stamane), all’estetica delle lettere e alla storia dell’arte della stampa, frutto del lavoro cioè di progettisti visuali che credo dovrebbero avere piena consapevolezza della duplicità intrinseca di ogni artefatto umano. Ogni artefatto umano infatti è, in gradi internamente variabili, allo stesso tempo prestazionale ed espressivo, è funzionalità e comunicazione, è usabilità e appropriatezza formale, interfacciate assieme – in linea di principio, non esistono materiali brutti o belli: sbagliati posson essere invece il progetto di un carattere o l’uso di un carattere in un contesto specifico.

Seconda annotazione
È importante osservare che, proprio in relazione a quanto appena detto, i caratteri non sono tanto prodotti autonomi quanto elementi di una catena, di un ciclo industriale ideativo-produttivo-distributivo. I tipi sono sì oggetti finiti e complessi ma sono soprattutto componenti basilari, materiali essenziali per il lavoro tipo—grafico, cioè (come i mattoni per l’architetto) sono elementi strutturali per il grafico che li sceglie, li usa, li impagina, ne fa fogli e pagine stampate, anche sullo schermo, oltre che sulla carta. Sono i progettisti visuali i veri utilizzatori, i destinatari primi dei caratteri, anche se gli utenti finali siamo noi tutti, i lettori; e il giudizio dei grafici è determinante nella questione. Se non ne trovano di coerenti alle loro intenzioni progettuali, non di rado disegnano lettere atte a soddisfare tali intenzioni, e da queste sperimentazioni (la storia ci insegna) sono nati molti dei più importanti caratteri che conosciamo.

Terza annotazione
Non dobbiamo dimenticare che la storia dei tipi è anche una storia di rinascite, di riprese continue, legate ai mutamenti delle tecnologie, dei sistemi e dei mezzi di produzione, oltre che legata sia al lento trascorrere del gusto e delle forme che li accomunano alla storia delle arti, sia al mutare del quadro dell’alfabetizzazione e della cultura, che li legano alla storia sociale della comunicazione e dello sviluppo della civiltà, più in generale. Insomma, il nuovo – qui più che in altre vicende storico-artistiche – nei caratteri si innesta perlopiù su un resistente ramo della tradizione; qui il tradimento, lo sviamento necessario dell’innovazione quasi sempre si confronta e si misura volente o nolente con la certezza della tradizione. Ed è interessante notare come nei momenti di svolta (non tanti, a dire il vero), nei pochi punti di crisi, legati alle vere trasformazioni produttive, la tradizione svela anche una particolare resilienza, una elastica capacità di riprender tono, di riaffiorare, di riprendersi, come quei materiali plastici che hanno memoria della loro forma. Gutenberg per primo imita, riprende le grafie manuali, le scritture dei codici; lo stesso farà Griffo con il corsivo; con le macchine compositrici meccaniche, quali la Linotype e la Monotype, nella prima metà del novecento, si assiste a un serio revival storico, come esemplifica il lavoro svolto da Stanley Morison; e nacora, il passaggio alla fotocomposizione riavvia il tema della traduzione in nuove tecnologie che oggi trionfa con il digitale. Rammentiamoci che i tipi di cui disponiamo oggi son solo quelli digitali e, per varie ragioni, la vicenda italiana del novecento non ha ancora trovato (a mio avviso) esauriente traduzione, o meglio ripresa cioè copia intelligente, in questo formato.

Quarta e ultima annotazione
La tradizione dell’Italia è storicamente di primissimo ordine, nel campo delle scritture e dei tipi: basti ricordare che l’alfabeto occidentale è quello romano-latino, che le forme più diffuse dei tipi di piombo prendon forma tra secondo quattrocento e primo cinquecento in Italia (a Venezia, in particolare) sulla scia del rinascimento, che figure come Manuzio o Bodoni – ad esempio – sono tra i più genuini e alti interpreti della tipografia dei loro tempi. La vicenda italiana del novecento, poco studiata e solo di recente (se non ci fosse Questioni di carattere, il prezioso volume di Manuela Rattin e Matteo Ricci, uscito nel 1997, non sapremmo dove indirizzare chi ci chieda letteratura sul tema), ha una sua particolare complessione, che ha bisogno di essere ancora approfondita, così come meritano di trovare traduzione digitale vari caratteri italiani del novecento (ne accennavo un attimo fa). È un insieme di fattori che ha consentito il primato tedesco e anglo-americano nel campo del disegno dei tipi nel novecento. Grandi fonderie, vere imprese multinazionali, con volontà di mercato ma anche di ricerca; buone scuole superiori di arti grafiche; la fortuna di aver dei magistrali calligrafi e dei notevolissimi disegnatori industriali di caratteri, che presso tali scuole si son spesso formati o hanno a loro volta formato, e per le grandi fonderie hanno lavorato. L’Italia di rilievo internazionale ha avuto in sostanza una sola fonderia (naturalmente, anche produttrice di macchine da stampa), la Nebiolo, che è stata malamente dismessa dopo una gloriosa vicenda; il problema delle scuole superiori e non puramente professionali di arti grafiche si è posto solo in anni recenti (con minime eccezioni precedenti e una quasi totale cecità pubblica); non mi pare di rilievo, nel senso appena indicato, i calligrafi; numericamente pochi, e abbastanza particolari come figure, i nostri disegnatori di tipi lungo l’arco del novecento: da Raffaello Bertieri a Francesco Pastonchi, dall’oriundo Giovanni Mardersteig all’eccentrico Alberto Tallone, fino a Francesco Simoncini. A fianco di questi, l’equipe della Nebiolo, in particolare lo studio artistico della fonderia torinese, istituito nel 1933: da Giulio da Milano a Alessandro Butti fino al più noto e fecondo dei disegnatori italiani di tipi del secondo novecento, cioè Aldo Novarese. Dunque, delle ragioni obiettive per un ruolo non di primissimo piano dell’Italia nel novecento seppur ancora non indagato a fondo. Ma oggi? oggi un’ennesima rinascita, che è planetaria: con il digitale, la fonderia sta in un portatile; certo, poi i caratteri van fatti conoscere, distribuiti, venduti, protetti , perché non restin un hobby; contemporaneamente, qualcuno deve provvedere a un’adeguata formazione: si può essere ma non basta essere autodidatti, perché non permette di affrontare la complessità di progettazione e del prodotto, che è e resta industriale.

[intervento* al congresso internazionale ATypI 2002, The Shape of Language, auditorium della tecnica, Roma, 21 settembre]
* in seguito è stato pubblicato, cfr [2004#06]

13.10.04

[2002#02] offumac 1&2


Domande, che sono il sale, l’olio e l’aceto della vita. Camuffo si nasconde si traveste si tramuta in Offumac? Come i supereroi dei fumetti, Offumac è una specie di “identità segreta” di Camuffo? Un caso di doppia personalità schizoide, come Dr Jekyll e Mr Hide, Dr Camuffo e Mr Offumac? Offumac si vergogna di esser riconosciuto come Camuffo e si firma Offumac per nascondersi a chi possa riconoscerlo? Una questione scaramantico-onomastica, l’uno l’inverso dell’altro, in perfetta simmetria bilaterale? Una pseudo sigla, forse un acronimo, del tipo: OFFicina UManistica ACrobatica?
Risposte, che son sempre provvisorie, interpretazioni, punti di vista, pregiudizi: condizioni preliminari per formulare dei giudizi. Niente di tutto quanto ci si è chiesto sopra e tutto ciò assieme. Ossia, una gran confusione, letteralmente. Con fondersi, fondersi assieme, in alchemiche sublimazioni empiriche.
Offumac si confonde e ci confonde. Capiamo almeno che siamo confusi. Ma non è forse lo spirito del nostro tempo, la stato dell’arte? Camuffoffumac rifiuta di farsi rinchiudere in un recinto, quello dell’ovvio, del dato, dell’opinione comune, del mestiere. Cerca di evadere, si sposta, va di lato e a zig-zag, ogni tanto salta e qualche volta inciampa. Confonde le tracce. Almeno ci prova, sapendo che non c’è una meta. Bisogna fare come se ci fosse, però. Lo stato dell’arte: quale arte, costringe a chiederci Offumac?
Arte è uno speciale fare, è una fabbricazione di artefatti, di cose fatte ad arte con arte: un linguaggio da parlare con parole sempre nuove perché sempre eguali. Impara l’arte e mettila da parte, se vuoi essere artista. Devi scordartela, insomma per esserne parte.
Offumac non è un artista, è un artefattore. Come non è un grafico, perché la grafica non si sa bene che cosa sia. S’è confusa, è alla rinfusa, è sospesa, è in rianimazione ma vive. Per fortuna, così può ripensarsi e dispensarci dal badarle troppo. Intanto, la si fa, c’è chi la fa. Contenti loro, contenti tutti. In questo senso, Offumac è scontento. Troppo facile, gli sembra; allora, oplà, fa una capriola e un doppio salto mortale, per tirarsi su il morale. C’è chi non capisce (e disapprova) ma chi ha detto che tutti debbano per forza capire. Peggio è che questi neanche si sforzan di vedere, si rifiutano di guardare, che è uno dei modi di pensare: beati loro, vita da surgelati nel freezer.
Offumac sa che, per permettere un sereno dialogo sulle cose importanti, non c’è altra strada che giocare. Non c’è nulla di più serio dei giochi, nella vita. Solo dal linguaggio nasce il linguaggio, i segni son figli di segni, l’invenzione ha molti parenti e una grandissima famiglia, le parole s’inseriscono in discorsi, per aver senso e farsi capire, suggerisce molto discretamente Offumac. Perciò, disegna. E subito dopo, sparisce, ridendo, in una piroetta colorata.

Questions, i.e. the dressing of life. Is Camuffo hiding or disguising or transmuting into Offumac? Like comic-book superheroes, is Offumac a sort of “secret identity” for Camuffo? A case of schizoid dual personality, like Dr Jekyll and Mr Hide – Dr Camuffo and Mr Offumac? Is Offumac ashamed of being recognised as Camuffo and using the name Offumac to hide from anyone who might recognise him? A propitiatory/onomastic question, where one is the opposite of the other, in perfect bilateral symmetry? A pseudo-abbreviation, perhaps an acronym, like: OFFice for ‘UManistic ACrobatics?
Answers, which are always provisional, interpretations, points of view, preconceptions: conditions preliminary to the formulation of judgement. None of the questions raised above and all of them at the same time. Or rather, incredible confusion, quite literally. Con founding, founding together, in empirical alchemical sublimations.
Offumac is self-confounding and confounds us. We should at least understand that we are confused. But isn’t this after all the spirit of our times, the state of the art? Camuffoffumac refuses to be delimited within a compound, the compound of the obvious, of the given, of common opinion, of the craft. Offumac tries to escape, moving, side-winding and zigzagging, every now and then jumping and sometimes stumbling. Offumac confounds those who would follow the tracks left behind. At least that’s what Offumac tries to do, knowing that there is no goal or objective. But you have to act as if there were, though. The state of the art: “which art?” is the question Offumac forces people to ponder.
Art is a special “making”, a fabrication of artefacts, of things artfully made with art: a language that has to be spoken with words that are always new because they are always the same. Learn art and put it to one side, if you want to be an artist. You’ve got to forget it, in other words, in order to be part of it.
Offumac is not an artist, but rather an “artefactor”. Just as Offumac is not a graphic artist, because it’s not really clear what graphic art is. It’s confused, pell-mell and helter-skelter, it’s in intensive care but still alive. Luckily, so now it can rethink itself and exempt us from tending to it too much. In the meantime, it’s being done, there are people who do it. If they’re happy, then we’re all happy. In that sense, Offumac is unhappy. It’s all too glib, it seems to Offumac; so, hey presto!, Offumac does a cartwheel and a double somersault, just for a quick morale boost. Some don’t understand (and disapprove), but who says that everyone has to understand? What’s worse is that these people don’t even make an effort to see, they refuse to look, which is one of the modes of thought: well, bless them and their deep-frozen lives in the freezer.
Offumac knows that, in order to provide the conditions for a serene dialogue on important things, the only path is playing. There is nothing more serious than playing, in life. Only language leads to language, signs are the children of signs, invention has loads of relatives and an enormous family, words are inserted into discourses, in order to make sense and be understood – this is what Offumac very discretely suggests. Hence, Offumac draws and designs. And as soon as Offumac has finished, Offumac disappears, laughing, a colourful kaleidoscoping pirouette.

REPUS OFFUMAC?
Offumac disegna? Così parrebbe, a sùbito guardare; ma a ben vedere, Offumac gioca. Gioca con la paura, irride le angosce, sberleffa l’ansia del profondo, con tocco lieve, di traverso, senza farsene accorgere: in punta di mani. È un gioco infantile, una specie di regressione tattile prima che visiva: un tuffo nelle regioni nascoste che vibrano dentro ciascuno di noi, occhieggiando sommessamente impercettibili panorami emozionali, desideri probiti e timori silenziosi, arcani ricordi sospesi ancor prima della memoria, inconsapevoli sogni ad occhi aperti. La mano scorre sul foglio e sul monitor, gira e rigira, tira righe e tratti, curve e circonvoluzioni, picchietta sguazza e sghiribizza, duplica e replica, storce e strizza. Tenta di afferrare qualcosa che sfugge, per fissarlo e guardarlo, per vederlo e farlo vedere. Palpa e sfiora le cose, titilla e sfrugola il mondo, con una carezza vorace e ingorda. Le mani – attrezzate a lasciar tracce visibili – diventano estensione della mente, un prolungamento e un’estroflessione che fruga la superficie dell’invisibile, per tradurlo in un incerto geroglifico indecifrabile. Sappiamo bene che spetta all’arte (in ogni sua forma) rendere visibile un alcunché di invisibile, e dunque serve a farci conoscere il mondo, a suo modo, per mezzo di artefatti, e a nient’altro: l’estetica lasciamola pure ai filosofi delle emozioni e dei frissons da salotto. Ma sappiamo anche che l’arte è ludica, è parente stretta del gioco, di un gioco ossessivo: il piacere infantile del gioco sta infatti nella ripetizione, nell’iterazione senza fine di un medesimo. Sempre lo stesso, sempre diverso, non stanca mai: senza fine, sfinisce come una possessione da cui si è attraversati, senza volerlo. E infatti è la matita, la penna, il mouse, lo strumento insomma che traccia i segni, ad afferrare repentinamente Offumac, a trascinarlo in un gorgo, ove si immerge a perdifiato e si perde come in un sonno ipnotico. Da questa apnea su generis vengono a galla detriti puntuti, schegge taglienti, frammenti sgangherati, bolle spumeggianti, materiali filamentosi, collage stereotipi, avanzi e rigurgiti non sempre digeriti. Insomma, Offumac scarabocchia e pastrocchia: i suoi disegnini son dei veri doodles, son quei segni – involontari ma tutt’altro che insignificanti e trascurabili – che tracciamo su un foglio mentre parliamo al telefono, ad esempio, o ascoltiamo qualcuno in una riunione. Gli scarabocchi son artefatti visivi molto particolari – spiegano gli esperti: le tensioni muscolari che ne guidano il segno rispondono a sottili impulsi cerebrali, che esprimono stati d’animo, dialogando con noi stessi e con l’ambiente, interpretando le situazioni, rivelando atteggiamenti, motivazioni e tensioni inconsapevoli. Offumac disegna cercando di scarabocchiare, di avvicinarsi a questo stato sorgivo e recondito del nostro essere; si fa bambino e ripete senza cessa questo gioco. È un itinerario à rebours, un viaggio alla rovescia, un percorso nella mente che si travasa tramite la mano in un accumulo di tracce, in una specie di automatismo della grafia segnica, della scrittura disegnativa, un flusso visivo: grafemi son propriamente chiamati infatti gli scarabocchi, segni inintenzionali che Offumac disegna consapevolmente intento a ritrovare un mondo interno, che trabocca e straripa. Grafemi, non a caso, sono i primi segni visivi conosciuti della specie umana: tacche, punti, incroci, cerchi, spirali, segni ritmici e astratti, più o meno geometrici che i nostri antenati, umanità ancora infante, hanno lasciato su pietre e ossa animali, tra i 50mila e i 35mila anni fa, prima di qualsiasi altra rappresentazione naturalistica o realistica. Offumac uomo delle caverne dell’anima bambina, ecco come ci spieghiamo i suoi graffiti grafemi che finalmente si fan trasparenti, parlanti favole per spaventarsi ridendo: paurosi mostri da esorcizzare, arruffati convolvoli di spirali mutevoli, sovrapposizioni di maschere umane ridotte a profili e strati, strappi e sgraffi di lembi di corpi, pupazzi irridenti la sorte oscura che li ha costretti a uscire alla luce, esili farfuglii di immagini disperse su mura implacabili, sghembi di righette acide e occhiuzzi malevoli, pallide nostalgiche lune di pianeti lontani, ventricoli e sfinteri rigonfi, esseri pelosi e sgorbi, permutazioni di mondi dalle geometrie non euclidee abitate da gnomi globosi, clown muti allo specchio, denti affilati pronti a morderti ringhiosi, cerchi che han perso il centro, cave occhiaie scheletriche, deflagrazioni e scoppi di figure mistilinee. Offumac li guarda soddisfatto, con ironia e distacco: sorride, non si ricorda perché li fa ma sa che li fa, quel che conta è il come, prima del che cosa – dice a se stesso; con noi, tace. E ci lascia, con un punto interrogativo. Tanto sa che la storia non finisce qui.

Does Offumac draw? So it would seem, at first sight; yet on closer inspection, Offumac plays. He plays with fear, scoffs at anxieties and jeers at profundity with the lightest of touches, obliquely, without drawing attention to himself – on his fingertips, as it were. His is a childish game, a sort of tactile rather than visual regression. He dives into the hidden regions that vibrate within each and everyone of us, meekly eyeing imperceptible emotional panoramas, forbidden desires and silent fears, arcane memories suspended in a region that is prior to memory itself. His hand slips along sheets and monitors, turns and turns once more, draws lines and outlines, taps, contours and circumvolutions, duplicates and replicates, twists and wrings. Attempting to grab something that eludes him in order to fix it and look at it, to see it and put it on display. Touching and brushing over things, stimulating and rummaging through the world, its voracious and insatiable caress. Hands, equipped to leave visible traces, become an extension of the mind, uncertain, indecipherable, hieroglyphic. We well know that it is up to art (in all its forms) to make visible whatever is invisible to make us familiar only with the world through artefacts. But we also know that art is ludic, closely related to games, and especially obsessive games. In fact the childlike pleasure of playing lies in the endless iteration of the same element. And we never tire of that element which is always different: endless, it wears us out like a possession within us, without us wanting it. From Offumac’s singular form of apnoea what comes to the surface is sharp, spikey detritus, jagged shards, dilapidated fragments, frothy bubbles, stringy material, stereotyped collages, left-overs and half digested regurgitations. In other words, Offumac scribbles and mucks about. His little drawings are doodles, like the signs that we trace over a sheet of paper while we’re on the phone. Doodles, according to experts, are very strange visual artefacts: the muscular tension that guides the sign and is fed by cerebral impulses; they express a mood, performing a dialogue between us and the environment, interpreting situations, revealing attitudes, reasons and unconscious tensions. It is a back-to-front journey, à rebours, a path through the mind that is poured out via the hand in an accumulation of traces, an automatic production of graphic signs, of drawing-writing, a visual flux: “grapheme” is in fact the term used to describe the doodles and unintentional signs that Offumac intentionally draws while he is intent on relocating an internal world that is full to overflowing. “Graphemes” were the first visual signs produced by the human race - notches, points, crosses, circles, spirals, rhythmic signs that our forebears, mere children, left on stones and animal bones some 50 to 35,000 years ago, before any other form of representation. Offumac is a man of the caves of the child-soul, and this is how we explain his grapheme-graffiti that finally become transparent, relating fables to frighten us while making us laugh: fearsome monsters that have to be exorcised, dishevelled convolvuli of changing spirals, superimpositions of human masks reduced to profiles and layers, tears and scratches of bits of bodies, puppets jeering at the dark fate that has forced them into the light, enfeebled babblings of images spread over implacable walls, skewed acid lines and malevolent eyes, pale nostalgic moons of distant planets, swollen ventricles and sphincters, ugly hairy beings, permutations of non-Euclidean worlds inhabited by globular gnomes, mutated clowns reflected in mirrors, pointed teeth, grinning, ready to bite, circles that have lost their centre, skeletal, heavy, dark rings under the eyes, explosions and bursts of mixed-line figures. Offumac observes all of this, satisfied, ironic and detached: he smiles, not remembering why he makes them, although he knows that he does. What counts is the “how”, much more so than the “what”. This is what he says to himself. With us, he is silent. And then he leaves us. Question mark. Break of the story, but not the end of it.

[Repus Offumac, in AA.VV., Super.Welcome to Graphic Wonderland, Die Gestalten Verlag, Berlin 2003, pp. 34-35]

12.10.04

[2002#01] kurt schwitters

Merz ist Form: l’arte della tipografia
Un potente afflato di ricostruzione (estetica) dell’universo scuote il mondo delle avanguardie artistiche del primo novecento, soprattutto tra fine anni dieci e inizio anni trenta, sia attraversando senza soluzione di continuità movimenti e gruppi più o meno durevoli, sia innervando proclami e manifesti di poetiche d’ogni sorta. A questo tempestoso turbine ideativo, che dal tempo dei primi futurismi rimbalza senza sosta nelle ricerche più creative di attivissime pattuglie d’artisti in Europa e oltre, non si sottrae neanche il campo della grafica; anzi, è oggetto di attenzioni reiterate e tutt’altro che marginali, destinate a non ripetersi nella seconda metà del secolo. Per quanto possa apparire contraddittorio nella tumultuosa dialettica tra ordine e disordine che caratterizza le “avanguardie storiche”, è proprio uno dei protagonisti più radicali del dadaismo a porsi come uno degli attori principali di tali riflessioni sulla grafica come mezzo di comunicazione e luogo di progettazione. Si tratta di Kurt Schwitters, inventore di una particolare forma espressiva plastico-pittorica, fondata sul culto degli scarti e della casualità, del residuale e del frammentario colto nella quotidianità ed elevato a vero arte-fatto. Non a caso, egli perfeziona lungo l’arco di tutta la sua vita un’ironica filosofia dell’arte, condensandola con la formula “Merz” (signficativa apocope di Commerz), etichetta contrassegnante la sua opera, tanto nell’ininterrotta sperimentazione pittorica che nei singolari interventi ambientali (noti come Merzbau), quanto nelle sue attività di grafico e letterista. Kurt Hermann Eduard Karl Julius Schwitters, classe 1887, nasce ad Hannover, città ove inizia gli studi superiori alla Kunstgewerbeschule (1908-09), per completarli alla Kunstakademie di Dresda (1909-14). Dopo l’interruzione tragica della grande guerra, all’esordio alla galleria Der Sturm (1918) di Berlino fanno seguito due eventi (1919) di gran rilievo nella sua carriera: il primo Merzbilder e la raccolta lirica Anna Blume Dichtungen - la ricerca nel campo del continuum sonoro, con cui si avventura in ardite sperimentazioni di poesia concreta e di composizione fonetico-verbale quali la Ursonate (1921), rappresenta un altro rilevante filone dell’opera complessa di Schwitters. Nel 1920 stringe amicizia con Hans Arp e Raoul Hausmann, due tra gli artisti d’avanguardia più in sintonia con le sue ricerche; l’anno successivo è impegnato, con Hannah Höch e Raoul Hausmann, in un itinerario di viaggio a Praga, ritmato da conferenze dimostrative. Dopo aver conosciuto (1922) Theo van Doesburg e la sua eterodossa intransigenza d’agit-prop delle arti, organizza con lui una Dada-tournée in Olanda (1923), che costituisce una tappa decisiva nelle vicende dei due. Nell’immediato seguito, Schwitters comincia il primo Merzbau, fonda la casa editrice Merzverlag e inaugura l’attività di grafico “pubblicitario” con l’agenzia Werbezentrale. Sulla rivista sperimentale “Merz” (il cui numero 1 è dedicato nel 1923 a Holland Dada) ospita interventi di tutto rilievo nel campo della grafica, com’è il caso di Topografia della tipografia di El Lisickij che appare sul numero 4, mentre le sue Tesi sulla tipografia compaiono nel numero 11 (1924), il monografico Typoreklame Pelikannummer, in contemporanea al celebre manifesto Gestaltung der Reklame di Max Burchartz, partner con Johannes Canis dell’agenzia werbe-bau di Bochum. Esito di tanta applicazione ai temi tipo-grafici, nella vena di riforma alfabetica vivissima in Germania, è l’ideazione (1927) del neue plastische systemschrift, tipizzazione plastica sistematica, di cui la optofonetica versione “f” è l’apice sperimentale: “la scrittura sistematica esige che l’immagine completa della scrittura corrisponda alle sonorità tutte della lingua”; Schwitters la pubblica nel numero 8/9 della rivista olandese “i 10”, adottandola per alcuni manifesti. La partecipazione (1927) ai die abstrakten hannover non è che il prodromo dell’associazione alla internazionale di abstraction-création (1932), mentre la fondazione del Ring neue werbegestalter (1927) lo vede al centro di una eletta schiera di attivisti della “nuova tipografia” (Baumeister, Bayer, Bill, Burchartz, Cassandre, Domela, Heartfield, Kassak, Moholy-Nahy, Stam, Sutnar, Teige, Trump, Tschichold, Van Doesburg, Vordemberge-Gildewart, Zwart, tra gli altri), promotore del gruppo e organizzatore di mostre (oltre 20, da Colonia a Amburgo, da Berlino a Stoccolma da Basilea a Copenhagen, Amsterdam e Rotterdam, tra 1928 e 1931). Documento probante delle riflessioni di Schitters maturate con questa esperienza sul campo è la brochure Die neue Gestaltung in der Typographie (1930). Nell’ambito della politica statale di Rationalisierung, la municipalità di Hannover gli affida (1929-34) il compito di riprogettare la propria identità visiva, incarico che Schwitters affronta metodicamente, con l’obiettivo di “realizzare ciò che è identico - spiega in Über die einheitliche Gestaltung von Drucksachen (1930) - rispettandone al massimo le similitudini, ciò che è differente rispettandone al massimo le caratteristiche, ciò che è analogo rispettandone al massimo le affinità”. Si tratta di uno straordinario esempio di immagine coordinata pubblica: proposto un pittogramma identificativo della città, Schwitters disegna uno “schema logico” per la cancelleria e la modulistica - nonché per gli stampati del sistema di trasporti, del teatro e dell’opera comunale -, adottando formati Din e il carattere Futura. Dopo la conquista del potere nazista (1933), Schwitters cerca rifugio prima in Norvegia (stabilendosi a Lysaker, nel 1937, ove inizia un altro Merzbau) e poi trova esilio in Gran Bretagna (dapprima internato per 17 mesi sull’isola di Man). Sistematosi a Ambleside con la fine della seconda guerra mondiale, comincia il suo terzo Merzbau (1947), poco prima della sua scomparsa all’inizio del 1948, al termine di un percorso in cui aveva esaurientemente saggiato la tesi esposta in “Merz” numero 11 già nel 1924: “Typographie kann unter Umständen Kunst sein”, “A determinate condizioni, la tipografia può essere un’arte”.

[Kurt Schwitters. Merz ist Form: l’arte della tipografia, in “sintesi” (Perugia), 16, febbraio 2002, snp]

cfr voce Kurt Schwitters in Wikipedia
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