19.4.04

[1996#03] sughi e sapori

Le pagine di questo volume raccolgono una originale, umorale e trasversale antologia di lavori di un selezionato stormo di grafici italiani, tarata campionatura di tutte le generazioni attive sul campo, dai maestri venerati ai protagonisti, dai deuteragonisti agli antagonisti novissimi, perfino fors'ancora acerbi, in una discriminante collegialità, tutt'altro che ecumenica, come compete a una serrata ricognizione (auto)critica. A ben vedere, si è di fronte, infatti, a una galleria di autoritratti, si scorre un album di autoscatti: necessario algido frantumarsi di uno specchio virtuale e onnicomprensivo della situazione di questo variegato settore di competenze progettual-creative. Non è forse ancor tempo di bilanci, se non sommariamente parziali; invece di un atlante, dei portolani locali, degli itinerari, ancor meglio: delle mappe mentali. Impervia alle panoramiche grandangolari, la trama del paesaggio della grafica italiana si tratteggia così in una confusa cangiante sfumata eterogenea restituzione attraverso istantanee in posa. Il profilo e i dettagli, il rilievo e le sezioni, le luci e la disposizione di scena, le "immaginarie" complessioni (aspre o zuccherine, incipriate o ruvide a pelle, gigolò o impettite, scicchettone o minimal, espettoranti o essudative, galanti o sgarbate, superbe o accattivanti, io c'ero già o ci sono anch'io) che ognuno offre di sé nel mettersi in pagina, secondo autonomi principi di rappresentazione pur entro omogenei spazi discorsivi, si susseguono in sequenze autonome di fotogrammi, a comporre un film dal montaggio a scatti. Si procede in una narrazione visiva irrequieta e disturbata di a-solo, orchestrata lateralmente e senza sceneggiatura, che alla fine condensa comunque un'immagine latente e problematica della grafica italiana. Ovvero che la sommatoria in progressiva accelerazione dei processi di trasformazione dell’attività progettuale in questione, ove si sono coagulate negli ultimi anni interazioni estremamente complesse (dalla omologante competitività globale della comunicazione a un iperbolico irrefrenabile consumo planetario di immagini fino alla epocale catastrofe recente del digitale), non consente più di parlare al presente di grafica “italiana” in modo ingenuo, e forse neanche di grafica, in termini così generici. Bisogna convenire infatti che il termine “grafica” ha raggiunto un’ampiezza di accezioni così vasta da renderlo profondamente ambiguo, il che non è necessariamente un disvalore; certo è che lo statuto di autonomia ormai conseguito sul campo da questa disciplina si è accompagnato a una tale diversificazione delle sue prestazioni da far sì che sia almeno problematico includervi indifferentemente gli artefatti comunicativi che gli si attribuiscono. Il problema non è nominalistico ma sostanziale, sia per la ridefinizione (assidua quanto incerta) delle professioni contemporanee, sia nella mutazione incessante del profilo di un mestiere sottoposto a ibridazioni e germinazioni continue. Dunque, l’antologia ci interroga, prima di tutto, sul senso della compresenza di artefatti comunicativi difformi, distanti, disomogenei - senza nulla togliere al valore delle pluralità espressive e delle ricerche dei singoli, felicemente e necessariamente divergenti - piuttosto che su omogeneità fortuite. Parrebbe però che (riferendosi alla questione di un spazio “italiano” nella grafica) sia venuta anche a mancare una netta, immediata delimitazione geo-culturale e un’area programmatica di ricerca linguistica, insomma quel riconoscibile confinamento nazionale o stilistico, quel contorno che consentiva di parlare non a sproposito, ad esempio e a piacere, di grafica “svizzera” o “costruttivista”, con tutti i limiti di questa e di qualsiasi etichetta. Dalla fine del secolo scorso, attraverso le esperienze storiche di varie generazioni di grafici (ove non sono mancati certo grandi maestri di livello internazionale) fino alle soglie degli anni settanta, lungo l’arco di un secolo almeno, la “grafica italiana” ha saputo costruire e mantenere delle proprie identità, talora molto forti e localizzate. Ma l’impressione attuale di sradicamento non è che un effetto superficiale: al fondo, dissimulati, permangono tratti comuni, ancora si scorge un’identità soffusa e autoctona. È innegabile infatti riconoscere in queste pagine, al di là delle costruzioni di immagini di ognuno, almeno due moventi “italiani”: sia il policentrismo proprio del Bel Paese, in ogni sua manifestazione culturale (con la feconda dialettica di scambi, e ritorni, tra centro e periferia che ne è sempre conseguita); sia l’attrazione fatale per una forma di idiosincratica progettualità, per una spesso fumosa ma sintomatica “cultura del progetto” grafico che rivela la forte, permanente influenza (se si vuol riflessa, indiretta, mediata o pur solo implicita) delle facoltà di architettura, di pari passo con l’assenza pressocché totale di scuole specifiche, nella formazione di buona parte dei nostri grafici. Autodidatti perlopiù, dunque, tesi a reinterpretare le esigenze più disparate che vengono loro proposte dai committenti tramite strumenti, teorici e pratici, acquisiti sul campo, con la duttile capacità di adattamento, ripresa, appropriazione, e con la flessibile intuitività che qualifica le migliori imprese del paese. Il disinteresse pubblico (salvo lodevoli rarissime eccezioni), la feroce distanza delle istituzioni e la conseguente, grave mancanza di diffusione di una cultura grafica definiscono oggi un assetto peculiare del lavoro grafico nel nostro paese, che lo relega spesso a compiti marginali, a un ruolo decorativo se non esornativo. La sempre più critica funzione della “progettazione” grafica in ogni comparto sia della produzione sia dei servizi sia della vita associata nel mondo contemporaneo sembrano sfuggire alla percezione collettiva, annullando il riconoscimento di potenzialità eccezionali per la società e i singoli, per il miglioramento dell’ambiente comunicativo, la gestione delle risorse specifiche, il controllo di una ormai devastante visual pollution nel sistema globale dei media. Al contempo, questo ritardo, questa difficoltà offre, a suo modo, uno spiraglio per guardare al futuro come a una possibilità da giocare, ancora aperta, difficile da transitare ma non impossibile da indirizzare. Sul piatto della grafica nostrana ai più pare ormai difficile trovare qualcosa di diverso da hambuger e patatine, tranci di pizza, un po’ di nouvelle typographie o qualche stantio piatto freddo: le trattorie hanno chiuso, per far posto a hostarie e a pub, a paninoteche e a fast-food. Se fosse così, bisognerebbe accettare senza nostalgie inutili che, tant’è, questo è il cibo che tocca mangiare.Il tentativo e l’ambizione di questo volume è mostrare come, nonostante tutto, sughi e sapori veri invece non manchino affatto oggi. Si può e si deve guardare ancora con fiducia alle prospettive straordinarie di questo mestiere, a patto di rispettare una condizione antica: nec flere nec indignari sed intelligere.
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