15.10.04

[2002#04] neografia



Sgombriamo subito il campo da equivoci che possan generarsi dal titolo del mio intervento. Non intendo proporre alla vostra attenzione una nuova grafia, un nuovo sistema di scrittura, bensì l’idea (più ardita e assai ambiziosa) di una disciplina da mettere a punto, da definire, da organizzare teoricamente e criticamente, con il concorso e l’intreccio di altre discipline più consolidate e già dotate di loro nomi: d’altronde, è così che si forman le scienze e i saperi. E cioè, eccone una prima, primitiva ma precisa definizione: la neografia quale ambito di studi che si situa storicamente in successione rispetto alla paleografia, in modo tale che si possa completare il campo della storia delle scritture umane, immaginando un generale integrale sapere scientifico che si occupi di tutte le scritture, dell’insieme di questi specifici sistemi di segni visivi decodificabili, dalle (imprescrutabili e perciò mitiche) origini alla contemporaneità. Quale migliore occasione, per il concreto avvio e la discussione di questa nuova disciplina, di un congresso che si occupa proprio dell’aspetto marcante e centrale (anche se non unico) della neografia, cioè del principale luogo ove annualmente, convergendo da tutto il mondo, si discute di tipo-grafia, della scrittura di lettere tramite tipi.

primo punto
Lettere
È necessario ricordare a mo’ di premessa che i nostri “tipi” son segni che stanno per dei suoni: come tali, derivano dalle lettere delle scritture naturali, dalle chirografie alfabetiche. Si tratta, in altri termini, di sistemi di notazione manuale delle emissioni fonetiche, fondati sulla rappresentazione in particole discrete delle componenti del tessuto sonoro verbale. Sono forme di codificazione della comunicazione, della lingua e dunque del pensiero, radicalmente diversi, in quanto a economia mediale e diffusiva del sapere, rispetto ai sistemi ideografici o sillabici, peraltro tuttora in uso in ampie aree geografiche. Le scritture infatti hanno lasciato le loro prime tracce documentate circa seimila anni fa, quando tratti grafici ripetibili e riconoscibili hanno per la prima volta reificato, isolato, spezzato, informato e reso distinto il continuo auditivo della comunicazione in pittogrammi (segni questi che rappresentano immagini invece che suoni) concettualizzandola in simboli, trasformando radicalmente i caratteri (potentemente conservatori, formulaici, paratattici) della cultura orale - alma mater di ogni forma di comunicazione umana. Solo assai più tardi, attraverso un lungo processo genealogico, che non dobbiamo necessariamente considerare evolutivo (come invece dimostra il diffuso pregiudizio alfabeto-centrico della nostra cultura), il tessuto sonoro della lingua si è rappreso in lettere, in segni di suoni, distraendosi, opponendosi dall’originaria immagine figurale di cose/idee rappresentabili, per farsi codice altrimenti condivisibile. L’invenzione - se così si può definire - delle vocali, la loro trascrizione in lettere è frutto del mondo ellenico, è di pochi secoli anteriore all’era cristiana, esito di una atomistica percezione della struttura fonetica della comunicazione orale: la vocale ha dato, ha conferito, ha strutturato il primato (ribadisco, occidentale) della voce, che ancora caratterizza il nostro modo di pensare la scrittura. La conseguente estrema riduzione dei segni alfabetici (inferiori ai trenta) operata dai greci meno di tremila anni fa, rispetto agli assai più complessi sistemi sillabici medio-orientali anteriori, ha resa visibile - in modo straordinariamente efficace, preciso ed economico - la parola, per riversarsi nel sistema dell’alfabeto latino, delle lettere romane, tuttora egemone in occidente. Con ciò si è imposta anche l’idea comune e appunto pregiudiziale che la scrittura sia una trascrizione, una sorta di neutro strumento di riversamento dell’auditivo nel visivo, rimuovendo quanto di tattile si nasconda comunque nelle sottigliezze del percettivo: quanto sia la mano (seppur tramite la tastiera) a scrivere, protetico strumento del cervello.

secondo punto
Alfabeti
La matura conquista classica dell’alfabeto risulta, dunque, in un codice notazionale di lettere, in un convenzionamento di segni decodificabili tanto efficace dal punto di vista delle prestazioni quanto semplice da tracciare e apprendere, dotato di notevole stabilità tipologica nella propria configurazione ma non perciò sottratto a continue variazioni morfologiche lungo l’asse del tempo.
Vi è di più: ogni scrittura diviene visibile, si realizza, si effettua solo nel suo materiale farsi segno fisico; ogni impronta letterale, in specie, è risultante dell’interazione tra due vettori, applicati a un codice di configurazione: lo strumento che traccia e il supporto su cui si traccia. A seconda della loro natura, la storia - in estrema sintesi - ha visto evolversi e trasformarsi gli alfabeti, lungo poco lineari percorsi, in due filoni: le “archigrafie” e le “calligrafie”, per usare delle etichette di comodo. Nelle prime, risuona l’accezione più antica dell’etimo stesso di “grafia”, il greco “graféin”: scavare, raschiare, scalfire, incavare, incidere - “sémata grápsas en pináki”, “incisi i segni nelle tavole”, si legge nell’Iliade. È il lavoro dello scalpello (di ogni strumento atto a togliere o incidere la materia del/dal supporto, come per lo scultore) che ha disegnato pazientemente, nelle tre dimensioni, per asporto e scavo, l’enorme parco testuale graffito in stele, lapidi, fregi e insigni monumenti classici, vero libro parlante dell’antichità, privilegiato ambito dell’epigrafia.
Da una parte, dunque, uno strumento “duro” che tramite rilievi (un levare tratti positivi o negativi) scrive lettere definite da contrasti chiaroscurali: l’archigrafia come pratica incisoria monogrammatica, dal lento tracciamento, che non sopporta indecisioni né tantomeno errori; scrittura di lunga durata in supporti durevoli e sostanzialmente immobili, dal segno strutturalmente lapideo, intimamente connesso con le qualità proprie del materiale per eccellenza dell’architettura. Il repertorio che chiamiamo comunemente “maiuscole” ne è il lascito evidente, nella polistratificata storia del complesso artefatto alfabetico. La capitale dei monumenti romani, che in epoca imperiale si arricchisce dei tratti terminali noti come “grazie”, è una delle due componenti sostanziali del nostro alfabeto, di eccezionale unitarietà formale e coerenza in un arco storico-geografico plurisecolare, obbediente a dettati percettivi rigorosi quanto rifuggenti geometrie elementari, in virtù di una plastica sensibilità alla luce.
Dall’altra parte, invece, uno strumento “molle” che scrive lambendo e coprendo il supporto di uno strato, lasciando una saliva, un succo, una bava sulla scia del proprio passaggio. La “calligrafia” come tracciato bidimensionale, macchia, opacità: lo strumento tracciante (calamo, penna, pennello, pennino e simili, propri anche al pittore) è un deposito meno durevole di liquidi scuri e oscuranti, che non toglie ma aggiunge sulla superficie del supporto un visibile indizio del proprio passaggio. L’orma piatta del movimento continuo della mano e non l’urto di una abrasione vela un fondo neutro e assorbente, facendo della lettera figura su sfondo. Dunque, una scrittura in cui risuona l’altra polarità che convive nell’etimo “graféin”: dipingere, figurare, rappresentare; in essa, la piacevole venustà delle tracce, la tattile sensuosità delle grafie, la scioltezza del tratto trova individuale, personale, autoriale espressione. Tendenzialmente continua, fluida, la “calligrafia” esalta la velocità di stesura, il valore figurale dei segni, la loro possibilità di legatura nei poligrammi delle parole e delle abbreviazioni; scrittura di relativamente breve durata in supporti effimeri e sostanzialmente mobili, dal segno strutturalmente morbido, intimamente connesso con le qualità proprie di materiale per eccellenza del disegno artistico, quale la carta. Alla vis sottrattiva della “archigrafia”, corrisponde dunque la natura additiva della “calligrafia”, il cui lascito più forte nella storia del repertorio alfabetico è non a caso la famiglia di lettere che chiamiamo “minuscole”, al termine di un plurisecolare processo di elaborazione corsiva, tachigrafica della lettera rustica latina, cioè delle forme di scrittura classica non monumentali.

terzo punto
Tipi
I tipi mobili di Gutenberg sono invece oggetti fisici, tangibili, manipolabili, discreti: lettere a rilievo in blocchetti di lega di piombo fuso, costitutivamente isolate e separate le une dalle altre, veri tridimensionali monogrammi (come ci ha insegnato Giovanni Anceschi nel suo fondamentale Monogrammi e figure, al proposito), monogrammi che vengono affiancati, a rovescio, a comporre le parole, le righe, le colonne, le pagine dei testi. Unita in una forma, la pagina di piombo viene inchiostrata e la sua impronta si trasferisce a pressione sulla carta, scavandola leggermente e depositandovi l’inchiostro. Questa, sommariamente, la stabilissima tecnologia che si trasmette inalterata dalla metà del quattrocento fino alla seconda metà dell’ottocento, resistendo fin quasi i giorni nostri. Le singole fusioni metalliche dei tipi sono ricavate da matrici che ripetono la forma dei punzoni, gli originali incisi (in serie di diverse dimensioni, con opportune correzioni ottiche al variare dei “corpi”) dai progettisti delle lettere o da abilissimi interpreti di altrui disegni alfabetici. La storia dell’evoluzione del disegno dei tipi è stringentemente legata al gusto e alla sensibilità architettonica dei tempi, forse più d’ogni altra forma d’arte, per la stringente metrica di reciproci rapporti finissimi e l’inesorabile controllo proporzionale che reclama. Ai nostri fini, che qui non possono essere quelli di ripercorre tale storia ma soltanto di individuare un’epocale frattura ultima, basta rilevare tre fattori basilari.
Il primo è la contraddittoria condizione iniziale in cui si trovarono i progettisti dei tipi: tentare di replicare al meglio il disegno, il modellato, la fattura di superbe qualità calligrafiche e poligrammatiche delle lettere scrittoriali, chirografiche, amanuensi, insomma la tradizione millenaria in cui vivevano, con un mezzo intrinsecamente monogrammatico. Sia la straordinaria ricchezza di glifi (impercettibili varianti della stessa lettera, in tipi da usarsi in specifici accoppiamenti) della editoria umanistica e rinascimentale, a cominciare dai tipi aldini (tra l’altro, con l’invenzione del carattere corsivo), sia le sottili correzioni ottiche al variare delle misure dei tipi della più schietta tradizione tipografica, ne sono prova e conseguenza diretta, che i secoli provvederanno a stemperare fino a quasi cancellare dal secolo scorso, attutendo progressivamente una sofisticata quanto diffusa sensibilità percettiva degli equilibri visivi nella composizione letterale della pagina.
Il secondo è il trionfo dell’umanesimo italiano nei tipi: il rinascimento impone all’occidente l’alfabeto latino, la tonda chiarezza della littera antiqua (non dimentichiamo che la stampa era nata, da poco, con i neri angolosi tipi gotici di Gutenberg) o, meglio, quella originale reinterpretazione dell’antichità classica che è ai fondamenti della risorgenza delle arti nella penisola. Conseguenza ne è la strutturazione finale dei tipi in due “casse”, compresenti in ogni alfabeto completo: gli alti archigrafici, le maiuscole, le lettere capitali quadrate di eredità romana; i bassi calligrafici, le minuscole, lettere che avevano trovato forma ultima nella rinascita carolingia, quasi mezzo millennio dopo - a cui deve aggiungersi una moltitudine di segni analfabetici (dagli accenti alle interpunzioni varie) e le cifre, d’origine indiana, ascendenza araba e diffusione solo due-trecentesca in Europa.
Il terzo aspetto è l’intrinseco legame tra strumento tracciante e supporto anche nella tipografia, tra piombo inchiostro carta: una relazione ibrida, uno strumento “duro” che scava il supporto per depositare una traccia liquida, come gli strumenti “molli”, insomma una sottrazione assieme a una addizione.

conclusione
Neografia
La tecnologia della “officina gutenberghiana”, il materiale medium dell’attività scrittoria post-amanuense, si è consolidata in oltre 500 anni. Il disegno dei caratteri “mobili” della scrittura artificiale, il progetto dei “tipi” (seriali e componibili) della letteratura a stampa è il prototipo stesso del disegno industriale, di quella rivoluzione industriale che muterà il mondo dalla fine del settecento a partire dalla Gran Bretagna, ma di cui la stampa, come processo d’ideazione, produzione, distribuzione e consumo ne è l’antesignana. È certo che il tipo, il carattere a stampa è un artefatto umano che ha subito una verifica d’uso (oltre che di quantità di qualità) come pochissimi altri, come soltanto gli strumenti e gli utensili basilari e fondamentali della civiltà umana.
Non a caso, l’estrema stabilità della tecnologia gutenberghiana fa sì che, per secoli, il progetto dei tipi evolva lentamente ma significativamente attraverso variazioni morfologiche in relazione diretta e reciproca con i tre fattori che abbiamo appena trattato. Gli ultimi decenni dell’ottocento, però, mutano e sviano la grandiosa tradizione secolare di paziente ricerca e di lento perfezionamento tipografico. La comparsa di macchine compositrici meccaniche, quali la Linotype e la Monotype, a sostituzione della lunga preparazione manuale del testo, accoppiata alla diffusione del pantografo, quale strumento per ottenere il disegno dei tipi a partire da un unico modello per ogni dimensione, segna con la fine dell’ottocento l’inizio di un processo di crisi che il novecento ha amplificato. Nella seconda metà del novecento, con una accelerazione invasiva dalla seconda metà degli anni ottanta, è mutata radicalmente tutta la fase di preparazione, la “prestampa”: la fusione “a caldo” dei tipi è ormai archeologia industriale (e nostalgia, talora), sostituita prima da procedimenti “a freddo” di fotocomposizione e oggi dal virtuale dei computers. Dopo la chirografia e la tipografia, è comparsa una nuova scrittura e bisognerebbe trovare un termine adatto: infografia, digigrafia, bitgrafia, non so. Comunque vogliamo chiamarlo, il tipo digitale, che si materializza al positivo in una pellicola plastica, ha eliminato il piombo secolare. I progettisti di lettere, già dagli anni sessanta, si sono trovati di fronte a incertezze e problemi analoghi ai punzonisti dell’umanesimo: prima tentando di tradurre in “numerico” il repertorio storico di tipi nati dai punzoni per il piombo e rinati per le macchine compositrici, poi ponendosi la questione critica della coerenza tra sistema strumental-produttivo e disegno delle lettere. Le prime lettere digitali erano formate da una sempre più fine matrice di punti; la tecnologia si è rapidamente evoluta (alla fine degli anni ottanta, con il linguaggio PostScript di descrizione di pagina, fondamento della prestampa odierna), offrendone una descrizione geometrica vettoriale scalabile delle lettere, che le riduce a pantografi digitali - una serie di esperimenti (come i MultiMaster) ha tentato senza grandi esiti di porre rimedio a questa condizione di povertà, ereditata dall’ottocento. Il desktop publishing, l’editoria elettronica da scrivania, ponendo nelle mani di tutti formidabili strumenti di disegno digitale dei caratteri (ma ripeto, possiamo ancora chiamarli tipi?), ha avviato al contempo una impetuosa rinascita dell’arte del disegno delle lettere in tutto il pianeta, che nel corso degli anni novanta è andata esplodendo, non solo in termini quantitativi. Una nuova consapevolezza della natura originale, unica e complessa, del tipo digitale si va diffondendo, con una diversa maturità problematica, dopo l’orgia spesso indigesta di tanta produzione contemporanea, sospesa sull’onda di entusiasmi neofiti, intemperanze trasgressive e appetiti di mercato. Il tipo digitale deve rispondere, del resto, a esigenze più ampie e diversificate del tipo disegnato per la stampa.
Da una parte, l’affermazione evidente del monitor, dello schermo (inclusi quelli dei palmari e dei cellulari e quant’altro vedremo) come nuovo supporto della comunicazione, radicalmente diverso dalla carta (non ultimo il fatto che assorbe la luce, invece di emetterla) pone una pressante urgenza di disegno di alfabeti per lo schermo, in cui si sono impegnati alcuni tra i più sensibili progettisti attuali - e poi sullo schermo, le lettere possono anche mutare colore, contorno, disposizione nonché muoversi o emettere suoni, ammesso che tutto questo abbia un senso.
Dall’altra, anche restando nel campo degli alfabeti per la stampa, la solida eredità della più conservatrice delle arti, la tipografia, implica a suo modo dei pregiudizi, formali e concettuali, difficili da rimuovere, in assenza di una più diffusa frequentazione critica dei problemi e delle vicende storiche - tra gli operatori tutti del settore -, che non può prescindere dalla conoscenza delle tecniche.

Delle domande, ora, per esemplificare, prima di concludere.
Nello scegliere, ad esempio, un carattere a stampa come il Bembo è utile sapere che questo è stato ridisegnato nel 1929 dalla Monotype per il suo sistema di composizione, sulla base di un tondo disegnato a Venezia da Francesco Griffo per Aldo Manuzio nel 1495, accoppiato a un corsivo ispirato da un alfabeto disegnato ancora a Venezia da Giovanni Tagliente negli anni venti del cinquecento, e che la serena qualità rinascimentale reinventata nel piombo novecentesco non si è persa fortunosamente in seguito nella versione digitale?
È significativo sapere che l’ubiquo Helvetica di Max Miedinger, della metà degli anni cinquanta, non è altro che un fortunatissimo banale remake del robusto, giusto centenario Akzidenz Grotesk?
Dice qualcosa il fatto che un altro carattere eccellente del novecento, il Times New Roman dell’inizio degli anni trenta è un vero pastiche: costruito su assi umanistici, con proporzioni manieriste, pesi barocchi e finitura neoclassica?
Fino a che punto è legittimo, insomma, il riversamento digitale di tipi disegnati per la composizione a mano, al fusione in piombo e la stampa a pressione, a partire dalla crisi tardo-ottocentesca fino ad arrivare nell’occhio del “ciclone” digitale attuale, che a tante serie di caratteri lascia il sapore dei “traduttori dei traduttor d’Omero”?
Che cosa significa, dopo il trionfo degli strumenti di progetto sulle idee dei primi alfabeti digitali, aprés le déluge di una decostruzione sui generis, il ripiegamento in un apparente ritorno all’ordine a cui assistiamo, con il redesign di Baskerville e Bodoni vari negli ultimi tempi?
La forte tendenza al recupero delle legature, dei glifi, della figuralità “calligrafica” e i tentativi di correzione ottica di molte delle più interessanti serie alfabetiche digitali contemporanee è l’unica chance che il digitale offre, all’egida di un “recupero” intelligente del passato, della “conservazione” del patrimonio storico dei tipi?
Le radicali ricerche del moderno (con i suoi rigori geometrici, il sogno dei monoalfabeti e analoghe sperimentazioni) non meritano anch’esse una attenta riflessione che vada oltre la ripresa banale delle semplici fattezze?
Oggi, il problema non è forse ancora lo stesso che attraversa la storia intera delle grafie, e pur tuttavia ancor più complesso per la pluralità dei mezzi attuali, cioè quello della forma appropriata e non della “bella forma”, di una adeguata coerenza di relazione tra disegno (digitale) della lettera, strumento tracciante e supporto, quali e comunque essi siano?

Queste alcune tra le molte altre domande possibili che non hanno ancora trovato adeguata risposta in un ambito coerente, strutturato di studi e ricerche, che certo settorialmente e talora eruditamente non mancano. Si torna al mio enunciato iniziale, come questione e domanda assolutamente indispensabile e preliminare, a mio avviso. Non è giunto ormai il tempo di dotarsi di strumenti, teorici e progettuali, e di repertori metodici, atti ad affrontare e dar corpo disciplinare a ciò che ho proposto di chiamare la scienza della “neografia”, rispettivamente moderna (dal quattrocento all’ottocento) e contemporanea (dall’ottocento a oggi)? Non è forse matura la situazione per disciplinare, per far disciplina della conoscenza di quanto è il naturale seguito storico della paleografia, nel conformarsi delle lettere artificiali in forme tipografiche e oggi digitali, non solo nell’ambito occidentale ma in quello planetario, seguendo e analizzando al contempo l’evolversi delle scritture manuali e delle altre grafie (pittogrammatiche, logogrammatiche, diagrammatiche e così via) che marcano il mondo d’oggi come un immane immaginario testuale?

Proprio con quest’ultimo genere di interrogativo terminavo, con un certo timore di manifestare presunzione e di dar prova d’accademismo, il testo di un mio saggio, pubblicato qualche anno fa da “Casabella”, sulla tipologia, tema che stamattina sarà svolto da Giulio Carrucciu. Non nego il conforto e il piacere di aver scoperto successivamente, leggendo le postume Variazioni sulla scrittura di Roland Barthes pubblicate da Einaudi nel 1999, che avevo ripetuto un’ipotesi reclamata dal grande intellettuale francese proprio -in quel prezioso, problematico e acuto volume. E con la citazione di quell’autorevole conferma termino il mio intervento: “I nostri eruditi – afferma Barthes – non hanno studiato a fondo che le scritture antiche: la scienza della scrittura non ha mai ricevuto altro che un sol nome: la paleografia, descrizione fine, minuziosa dei geroglifici, delle lettere greche e latine, abile mestiere degli archeologi nel decifrare antiche scritture sconosciute. Ma sulla nostra scrittura moderna, nulla: la paleografia si ferma al XVI secolo, e pur tuttavia come si fa a non immaginare […] una neografia che ancora non esiste?”.

[intervento al congresso internazionale ATypI 2002, The Shape of Language, auditorium della tecnica, Roma, 21 settembre]
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