27.11.06

blog gone, blog-one, bloggone

Ho traslocato definitivamente!
Mi trovate qui: Poisongalore, da oggi un unico, rinnovato blog di grafica (e dintorni), motorizzato da WordPress, in cui confluiscono i precedenti inrete, zibaldone e circolodellagrafica, che asap trasferirò nella nuova sede, assieme ai materiali della didattica.

Saluti dal Vs. affezionatissimo
Moi même

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30.10.06

[2006#0] albe steiner in messico

Oggi è già domani
Albe Steiner in Messico

“È Hannes Mayer che ha diretto e realizzato la Memoria del Comitato Amministratore del Programma Federale per la Costruzione di Scuole (Capfcs) 1944-1946, pubblicazione di oltre 400 pagine con più di 1000 illustrazioni su quanto in tre anni si era fatto in Messico per la costruzione di edifici scolastici; gli artisti del Taller de Grafica Popular hanno disegnato un aspetto diverso dei diversi Stati, ciascuno con le proprie caratteristiche”. In un’intervista data a Renzo Vespignani per «Rinascita» nel 1948, anno del ritorno in Italia dal Messico, Albe Steiner ricordava così –senza alcun cenno al proprio contributo– la vicenda editoriale che invece lo aveva visto partecipe in prima persona. È lui infatti l’autore della grafica del volume del Capfcs, stampato in un formato orizzontale ad album, connotato come architettonico già prima dell’Œuvre compléte di Corbu, e con una confezione altrettanto caratterizzata: legatura in tela, con impressione a due colori (rosso/nero) del prolisso titolo, e sovracoperta con bandelle. L’archivio Steiner, donato nel 2003 al politecnico di Milano, conserva un documento straordinario del percorso ideativo della pubblicazione e della passione per il mestiere di grafico del progettista: il menabò completo, una di quelle sue “maquetas de las ediciones –come annoterà Alberto Beltrán– […] cuidadosamente hechas”. “Il mestiere del grafico, –notava Paolo Fossati nel 1978– del progettista, trascende sempre, per Steiner, la stessa constatazione formale, che pone il grafico come produttore di oggetti o forme: l’esito non sta nell’oggetto, anche se è esso il luogo produttivo, perché l’oggetto organizza un piano più vasto e più complesso di relazioni e di dati”. Nel contesto specifico dell’esperienza messicana, la visualizzazione preliminare di un artefatto a stampa e le istruzioni per l’esecuzione dell’impaginazione (questa la natura e lo scopo di un menabò) si trasformano in un vero tour-de-force, risultando in uno speciale ‘libro d’artista’ –in questo caso, unicum destinato esclusivamente a guidarne la produzione tecnica–, la cui qualità visiva è inesorabilmente superiore a quella del volume stampato. Dalla prima all’ultima pagina del menabò, con la dedizione e la precisione che reclama la tipografia vissuta come progetto d’informazione e d’orientamento (dell’esecutore, ancor prima del lettore), Steiner meticolosamente schizza e pennella a china ciascuna illustrazione nella posizione e dimensione adatta e, al contempo, riporta a pennino le righe esatte misurate di testo e didascalie, ottenendo un ‘modello’ concreto di libro, di grande efficacia operativa, con cui porta agli estremi una prassi –usuale, per lui e per molti suoi contemporanei– per presentare stampati. Non a caso, poiché: “in Messico –ha ricordato Lica Steiner, a proposito degli arredi ideati per la loro nuova casa-studio in quella terra– a quei tempi gli artigiani erano bravissimi nel loro lavoro […]: a loro serviva il modellino, poi realizzavano l’oggetto con grande accuratezza”.
Esponente tra i maggiori della progettazione grafica (non solo italiana) del secondo novecento, Albe Steiner ne ha incarnato, tra anni quaranta e settanta, una esplicita vocazione politica, intessuta da assunti pedagogici, che marcano l’intero suo itinerario di vita. Riassunta nella formula del “rosso e nero” (facile e fortunata etichetta critica), la ricerca visiva di Steiner attinge dalle esperienze delle avanguardie razional-costruttive europee degli anni venti e trenta –sovietiche e germaniche in specie, da El Lisickij a Tschichold e al Bauhaus (“ricordo ancora d’aver visto per la prima volta nel suo studio, rammenta al proposito Gillo Dorfles, la serie, allora sconosciuta, da noi, dei Bauhausbücher”)– sia motivazioni culturali che principi di chiarezza e rigore, per elaborarli secondo un originale percorso di ricerca (in cui si intrecciano diletto grafico, competenza tipografica, sguardo fotografico) e innestarli nello specifico contesto civile italiano. “Una delle fondamentali idee estetiche del nostro secolo [il novecento], che la forma delle cose che ci circondano, […] di tutto ciò che serve per comunicare –ha scritto acutamente Italo Calvino ne Il segreto di Albe Steiner– […] esprima qualcosa, una mentalità e una intenzione, cioè il senso che si vuol dare alla società nell’era della civiltà industriale, quest’idea aveva cominciato a girare in Europa negli anni della sua giovinezza ed era stata decisiva per lui. Direi che in lui questa idea non aveva mai perso la forza di impatto della prima scoperta e non era mai incappata in contraddizioni e in crisi perché per Albe il piacere dell’invenzione formale e il senso globale della trasformazione della società non erano mai separati”.
Nipote di Giacomo Matteotti, Albe Steiner (nato a Milano nel 1913) inizia nel 1933 un’attività plurale di disegno industriale, che si arricchisce della collaborazione della moglie Lica dal 1939, anno in cui si avvicinano al partito comunista, occupandosi con Elio Vittorini di stampa clandestina per tutta la durata della guerra. Partigiano in val d’Ossola con la moglie, Steiner è commissario politico della 85a brigata Garibaldi; nel 1945 perderà il fratello Mino, deportato a Mauthausen, mentre il suocero era scomparso nel settembre del 1943. Subito dopo la fine della guerra, la ripresa del lavoro in ambito grafico –mai del tutto interrotto, anzi: “Se gli piace, insegni pure la grafica ai partigiani esterrefatti, commenta Giorgio Bocca in Una repubblica partigiana”– lo porta a misurarsi con una serie di opportunità, tra le quali spicca la vicenda con Vittorini del «Politecnico», che “è un nodo fondamentale del discorso di Steiner, –rimarcava ancora Paolo Fossati nel 1978– e ne segnerà scelte e soluzioni successive”, con l’idea-guida del ‘redattore grafico’ e “una convinzione tecnico-culturale precisa: i mezzi grafici sono una precisa connotazione di idee, […] il mezzo è messaggio se fa e dice il messaggio”. Non a caso, “nel mio ricordo, la ‘mano’ di Albe mi si impone con la smarginatura alta della testata del «Politecnico», con la tensione introdotta entro la razionalità delle maiuscole. –ha raccontato Franco Fortini– […] Non ebbi dubbi, fin dall’inizio, sul significato di quell’impostazione grafica; intendo, sui contenuti politici che essa convogliava […], i medesimi contenuti che Vittorini voleva per i testi del settimanale: amore per un didattismo tutto positivo, senza oscurità, una sorta di gaiezza pedagogica della linea retta, di polemica della pulizia intellettuale […] No, ci fu una volontà modulare, come un sistema metrico di fondo, una specie di formula di fede riaffermata ad ogni nuovo numero della pubblicazione: ma all’interno di quella le variazioni e le invenzioni sono innumerevoli […] Anche il modulo del mensile (impostato da Steiner prima della sua partenza per il Messico […]) obbedisce all’intento dichiarato di Vittorini e della redazione: concentrazione e ricerca, durata nella riflessione, ostinazione in tempi sempre più avversi”.
È dunque nella Milano del primissimo dopoguerra che Steiner matura una decisione difficile, dopo aver collaborato all’allestimento delle mostre della Liberazione e della Ricostruzione e aver lavorato ad altri importanti progetti grafici, in specie per Einaudi. “Nell’autunno del ’45, con la madre e la figlia Luisa –scrive la figlia Anna Steiner, nata a Città del Messico, nel recente bell’album Albe Steiner– Albe e Lica partono per il Messico, dove vivono i fratelli di Lica, con l’intenzione di riunire, dopo le tragedie della guerra, la famiglia”. È l’inizio della breve avventura in terra messicana, ove Steiner entra subito in contatto con i circoli degli immigrati, frequentando Vittorio Vidali (il comandante Carlos del V reggimento nella guerra civile in Spagna) e Hannes Meyer (direttore del Bauhaus, dal 1928 al 1930, e poi pianificatore in Urss), mentre si inserisce nella società civile e nella cultura locale, collaborando come membro straniero –assieme a Meyer– al Taller de Grafica Popular, di cui eran parte (tra molti altri) grandi artisti dei murales quali Diego Rivera e Alfaro Siqueiros. “In Messico, per iniziativa di un gruppo di pittori, guidati da Leopoldo Mendez, si costituiva nel 1938 il Taller de Grafica Popular (Tgp) –spiega Steiner su «l’Unità» il 10 dicembre 1948– che significa Officina di Grafica Popolare, intendendo per grafica tutte quelle opere artistiche che possono essere facilmente riprodotte in migliaia di copie”; “ho iniziato la mia collaborazione al Taller de Grafica Popular nel 1946 all’epoca del Libro Nero del terrore nazifascista. –continua Steiner nell’intervista di «Rinascita» del 1948– Ci si riuniva una volta alla settimana, si discutevano gli avvenimenti nazionali ed internazionali, si stabiliva chi e come doveva realizzare un giornale murale. I disegni e i testi molte volte sono serviti per migliorare le pubblicazioni ed il grado di preparazione tecnica ed artistica di tutti e di ciascuno”. In effetti, “la presencia de Albe Steiner en el Taller de Grafica Popular –ricorderà Alberto Beltrán nel 1977– fue volviéndose habitual, al principio desconcertaba encontrarse con un artista gráfico de tipo diferente. La mayoria de los miembros del Taller […] sin embargo ignoraban mucho de lo relacionado con las técnicas de reproducción moderna y las disciplinas tipográficas, es dicir todo aquello en que Albe Steiner era un maestro. […] Steiner cordial, animoso siempre, pronto comprendió las caracteristicas del grupo y pudo colaborar con muy buenos resultados. […] Pero sobre todo impresionaba ver su manera de trabajar, la meticulosidad en sus razonamientos para relacionar logicamente el contenido de las ediciones con la forma tipografica”. Pur così impegnato in un’ampia serie di lavori (dall’organo settimanale «PP» del Partido Popular al mensile «Politica», dal mensile «Construyamos Escuelas» per la campagna nazionale di edilizia scolastica –collegata al volume Memoria del Capfcs– ai volumi per la Universidád Obrera di Città del Messico –ov’era lettore–, dalla rivista «Italia Nuova» di Ardi grafica alle «Notizie italiane» della nostra ambasciata, fino a vari manifesti), Steiner aveva mantenuto fitti rapporti con l’Italia: prova ne sia l’impostazione, tra l’altro, della grafica della VIII Triennale con Max Huber. “Vuoi diventare il nostro corrispondente dal Messico? –gli scriveva, nel frattempo, Ernesto Nathan Rogers, invitandolo a collaborare a «Domus», per cui Steiner aveva disegnato delle copertine tra 1942 e 1946, stesso anno in cui ne aveva realizzate anche per «Costruzioni» e subito dopo per «Costruzioni Casabella»– […] Sai già che cosa ci interessa: case, esterni, interni, oggetti e tutto il resto per il quale viviamo […]; la casa dell’uomo, la sedia dell’uomo, la città dell’uomo”. Nel 1948, alla vigilia di elezioni di peculiare rilievo politico, gli Steiner decidono di rientrare in Italia; alla ben nota e straordinaria attività professionale dello studio Steiner da allora in poi, che non è tema ulteriore di questa nota, si affianca immediatamente l’impegno didattico, dapprima al convitto Rinascita, dal 1948 al 1958, e poi (ma non soltanto: dal 1962 al 1971 è docente a Urbino mentre tiene corsi e lezioni anche all’Iuav di Venezia, al politecnico di Torino, e a Parma, Roma, Firenze) all’Umanitaria di Milano, dove Albe è direttore della scuola del libro dal 1959 alla sua scomparsa nel 1974. Nel numero di novembre-dicembre del 1973, «Linea Grafica» pubblica il suo ultimo articolo, Oggi è già domani, scritto in occasione della rassegna di fine anno 1972-73 “e come punto di partenza per precisare i programmi per il 1973-74” della scuola del Libro dell’Umanitaria. “La scuola del Libro –vi si legge– deve dare oggi una preparazione tecnica e culturale di base che permetta allo studente di iniziare l’attività professionale […] sempre tenendo presente che la tecnica e la cultura per domani, per migliorare la società nella quale viviamo, saranno tecnica e cultura ‘diversa’ dalla tecnica e dalla cultura che hanno prodotto la società nella quale non ci riconosciamo idealmente. […] La preparazione dello studente grafico oggi deve essere quindi più culturale per poter progettare modelli validi per domani. […] Grafici non più educati come artefici delle Arti, non più indirizzati al progetto ispirato al ‘bel pezzo’ come il pittore di cavalletto, non più come il ‘designer’ che attraverso il bell’oggetto conforta la società ammalata, non più come uomo elegante, mondano, sorridente, scettico, egoista, narcisista, amante dei formalismi, ‘programmato’, ma grafici che sentano responsabilmente il valore della comunicazione visiva come mezzo che contribuisce a cambiare in meglio le cose peggiori. […] Grafici che sentano che la tecnica è un mezzo per trasmettere cultura e non strumento fine a se stesso per giustificare la sterilità del pensiero o peggio per sollecitare inutili bisogni, per continuare a progettare macchine, teorie, mostre, libri e oggetti inutili”.

Bibliografia essenziale
Max Huber e Lica Steiner (a cura di), Albe Steiner. Comunicazione visiva, Fratelli Alinari, Firenze 1977
Albe Steiner, Il mestiere di grafico, Einaudi, Torino 1978
Lica Steiner e Mario Cresci (a cura di), Albe Steiner. Foto–grafia. Ricerca e progetto, Laterza, Roma–Bari 1990
Anna Steiner, Albe Steiner, Edizioni Corraini, Mantova 2006

19.10.06

[2006#0] pax

Pax

“Una bandiera – si legge nell’enciclopedia – è un drappo di stoffa o di altro materiale di uno o più colori, disposti a bande orizzontali o secondo un particolare disegno che rappresenta uno Stato, una comunità regionale, linguistica o etnica, un partito, un sindacato un’associazione sportiva o altro” [nota 1].
Vuol rappresentare altro, in effetti, la bandiera di cui si discute qui brevemente e cioè l’ideale di un’amplissima comunità senza confini di stati, regioni, lingue, etnie: una radicale volontà di pace tra gli uomini, che stenta a realizzarsi in terra, come mostrano le vicende della nostra specie, la più feroce, invasiva e adattabile del pianeta, assieme ai ratti. A fronte di tante bandiere di guerra (tra le ragioni storiche forti dell’uso stesso delle bandiere), che oppongono uomo ad uomo con violenza per la morte, la bandiera di pace vuol unire ed affratellare con mitezza per la vita.
Questa bandiera – come ogni bandiera – ha una sua forma, una specifica configurazione formale, veicolo visivo-materiale dell’idea; in sintesi estrema, è una bandiera-arcobaleno (tra molte, come vedremo): sette sottili strisce orizzontali, di altrettanti colori, quelli associati per convenzione e tradizione al mirabile fenomeno celeste – rosso, arancio, giallo, verde, azzurro, blu e viola – entro uno dei formati più diffusi per le bandiere, un rettangolo di rapporto 3 a 2 tra base e altezza.
Seppur intrinsecamente più debole in termini ottico-percettivi, rispetto ad altre configurazioni, e priva della rigida protezione assicurata ad alcuni tipi – tra i più diffusi – di bandiere (quelle nazionali, in primis, simbolo inviolabile delle patrie, per le quali ci si può immolare), l’efficacia emblematica del vessillo iridato si è andata tuttavia rafforzando significativamente negli ultimi tempi, nella scia di una tradizione di remote origini. Come per l’immagine della colomba, anche per l’arcobaleno l’associazione con la pace, nella nostra cultura, si trova infatti già nella narrazione biblica del diluvio universale. Noè libera una colomba e questa torna con un rametto di olivo nel becco (Genesi, 8:11), a significare che Dio si è riappacificato con gli uomini e quindi per essi c’è ancora terra; la comparsa in cielo dell’arcobaleno, poco più tardi (Genesi, 9:12-17), al termine del diluvio, simboleggia (secondo un’interpretazione diffusa) un Eccelso inchino, primordiale segno non-verbale di fine delle ostilità.

In effetti, la storia della bandiera-arcobaleno in occidente, a fianco della storia dei simboli in generale e degli altri vessilli di pace in specie, è più articolata di quanto non si possa sospettare.
Per restare in Europa, nel corso del Cinquecento, ad esempio, durante la “guerra dei contadini” che travaglia a lungo i paesi di lingua tedesca, la bandiera-arcobaleno è l’emblema che i rivoltosi espongono, assieme al Bundschuh (la “scarpa grossa”), per esprimere la speranza in una nuova era di riscatto ed eguaglianza sociale; lo stesso Thomas Müntzer, protagonista di questi moti con la sua predicazione riformatrice, viene spesso raffigurato con la bandiera-arcobaleno in pugno.
Ai giorni più o meno nostri, invece, la bandiera-arcobaleno è un emblema-arlecchino, con numerosi e diversi referenti, non senza sottili variazioni formali [nota 2]. Le versioni più note (in ordine storico) sono quelle del movimento cooperativo internazionale, della marcia della pace italiana, del Gay Pride americano.
La bandiera iridata è stata l’insegna del movimento cooperativo internazionale, già dall’importante congresso internazionale dei suoi rappresentanti tenutosi a Basilea nel 1921. L’Ica, alleanza cooperativa internazionale (organizzazione non governativa indipendente, fondata nel 1895, che rappresenta oggi 800 milioni di cooperatori), propose a Essen, nel 1922, di disegnare un simbolo e una bandiera per la prima giornata dei cooperatori del luglio 1923. Dopo alcune prove, Charles Gide, un cooperatore francese di primo piano, suggerì la bandiera iridata, messa a punto nel 1924 e adottata ufficialmente nel 1925 ma alla fine dismessa nell’aprile 2001, pur senza rinunciare all’immagine dell’arcobaleno, per evitare confusione con le molte altre bandiere iridate diffusesi nel frattempo nel mondo.
La bandiera-arcobaleno della pace ha, invece, origini italiane, pur essendo ben nota internazionalmente; oltre ai sette colori dell’iride (talora il viola è sotto all’azzurro, comunque il rosso è in basso) e alla scritta PACE (non di rado in italiano anche all’estero) in bianco, la versione originale aveva un’ulteriore striscia bianca in cima. Ispirandosi alle bandiere multicolori delle coeve campagne anti-nucleari (il cui simbolo più famoso è, tuttavia, il pittogramma Cnd, più tardi notissimo button Make Love Not War!, disegnato nel febbraio 1958 dal grafico inglese Gerald Holtomper), il fondatore del movimento non-violento italiano, Aldo Capitini, ha ideato e proposto la bandiera-arcobaleno in occasione della prima marcia per la pace Perugia-Assisi del settembre 1961. Nel 2002, grazie alla campagna Pace da tutti i balconi, organizzata e promossa da padre Alex Zanotelli contro l’imminente guerra in Iraq, la bandiera-arcobaleno ha conosciuto un’enorme popolarità.
La bandiera-arcobaleno è oggi anche il simbolo più conosciuto e usato del LGBT (lesbian, gay, bisexual, transgender) movement, il movimento di liberazione omosessuale nato negli Usa: i colori di questa Rainbow Flag (sei soltanto dal 1979, con il rosso in alto e senza l’azzurro) sono l’emblema del Gay Pride. Disegnata da Gilbert Baker, in origine con otto colori, è stata usata per la prima volta a San Francisco, nella marcia del Gay Pride del giugno 1978. Ne esistono molte variazioni: tra le più comuni quelle con un lambda in bianco al centro e un triangolo rosa o nero all’angolo superiore sinistro; non mancano quelle in cui vengono aggiunti altri colori, in specie una striscia nera.

Ma non è finita qui; esistono, infatti, anche altre bandiere della pace.
In Italia, ad esempio, la bandiera della pace del Sermig è l’insegna del movimento fondato da Ernesto Olivero a Torino nel 1964 e dell’Arsenale della Pace, dove è nata l’idea stessa della bandiera (elaborata a lungo dall’Agenzia Armando Testa, e preferita dagli ambienti cattolici, negli ultimi tempi), in cui la scritta PACE in blu sovrasta le bandiere delle nazioni del mondo; esistono altre versioni, con la scritta nelle principali lingue e pure in latino.
Negli Usa, per contro, l’artista Nicholas Roerich, un esule russo, riuscì nel 1935 a far ratificare da varie nazioni (inclusi gli Usa e l’India) – con il supporto di Albert Einstein, George Bernard Shaw e H.G. Wells –, l’ineffabile Roerich Peace Pact, un accordo internazionale che pone sotto la protezione simbolica della Banner of Peace, disegnata dall’estensore stesso del Pact (e raffigurata per la prima volta in un suo dipinto del 1932, Madonna Oriflamma), il patrimonio artistico-culturale dei paesi aderenti, per promuovere “natural time and planetary peace”.

Come si intuisce, le vie delle bandiere-arcobaleno – e delle bandiere della pace – son (quasi) infinite.

Note
1 . L’ambito di studio specifico delle bandiere ha il nome di vessillologia, disciplina abbastanza recente, contermine all’araldica (stemmi) e alla sfragistica (sigilli) ma apparentata anche (e come non potrebbe esserlo?) con la semiotica. Fotw, Flags of the World, è il principale sito web di vessillologia, con oltre 31.000 pagine e oltre 58.000 immagini di bandiere (al mese di settembre 2006); www.cisv.it è invece il sito del Centro italiano di studi vessillologici. Per estensione, vessillografo è chi progetta o disegna bandiere; tra i più noti, in epoche diverse, Emilio Aguinaldo (bandiera delle Filippine, 1898), Manuel Belgrano (bandiera dell’Argentina, 1812), Adolf Hitler (Reichskriegsflagge, bandiera di guerra tedesca, 1935), Fredrik Meltzer (bandiera della Norvegia, 1821), Francisco de Miranda (bandiera del Venezuela, 1806), Zeng Liansong (bandiera della Repubblica popolare cinese, 1949). La definizione di bandiera cit. in apertura è tratta da Wikipedia, l’enciclopedia libera online, consultata utilmente – nelle sue varie lingue –, anche per molte altre informazioni, dati e notizie riportate in questo testo. Oltre alle tipologie indicate, esiste tutta una famiglia, assai rilevante, di bandiere segnaletiche e semaforiche, a cominciare da quelle nautiche e marittime, ferroviarie e di molti sport. Sulla fenomenologia e la storia delle bandiere esiste una vastissima bibliografia, sia divulgativa che scientifica – da segnalare, inter alia: C.F. Pedersen, The International Flag Book in Colour, R.N. William Morrow & Company, New York 1971; W. Smith, Le Bandiere. Storia e Simboli, Mondadori, Milano 1975 (ed. or. Flags through the Ages and across the World, 1975, ed. agg. rid., Flags and Arms across the World, 1980); W.G. Crampton, Guida illustrata alle bandiere, Vallardi, Milano 1991 (ed. or. The Complete Guide to Flags, 1989); K.-H. Hesmer, Flaggen und Wappen der Welt, Bertelsmann Lexikon Verlag, Gütersloh 1992; A. Znamierowski, The World Encyclopedia of Flags, Lorenz Books, New York 1999, nuova ed. 2005.
2 . Interessante, ad esempio, tra le altre bandiere-arcobaleno in occidente, la recente proposta di bandiera (“codice a barre”) per la comunità europea di Rem Koolhas, adottata per la prima volta nel 2006, in occasione della presidenza dell’Austria. La fervida disponibilità delle soluzioni grafico-cromatiche ad arcobaleno è testimoniata, tra l’altro, dalla loro presenza nel corporate logo della Apple Computer disegnato da Rob Janoff, in uso dal 1976 al 1998, e in quello della Central Independent Television dal 1985 al 1998, nonché in quello attuale (a 11 colori) di Banca Intesa, dal 2003. La bandiera-arcobaleno, nelle sue varie declinazioni, è presente anche in altre aree del mondo, con denotazioni e vicende specifiche; ad esempio, per rappresentare i Tawantin Suyu (i territori inca in Ecuador e in Peru), l’Oblast ebraico in Russia (un distretto autonomo ai confini con la Cina), le comunità buddiste in oriente e quelle dei drusi in medio-oriente. Curiosando in rete, infine, si scoprono non pochi siti dediti al commercio di bandiere-arcobaleno e di pace (come thepeacecompany), più o meno fantasiose, più o meno fastidiosi, non di rado all’egida del New Age e di altri vaghi misticismi.

[in Giorgio Camuffo (a cura di), Give peace another chance, Fondazione Venezia per la Ricerca sula Pace, Venezia, pp. 12-17]

14.10.06

[2006#0] alan fletcher

Lo sguardo laterale
(Alan Gerard Fletcher 27.9.1931 – 21.9.2006)

“Design is not a thing you do. It’s a way of life”: in questa lapidaria frase di Alan Fletcher, uno tra i massimi graphic designer degli ultimi cinquant’anni, sta forse la chiave più genuina per comprenderne la straordinaria passione e la profonda identificazione nei confronti del “disegno”, nel duplice intimo significato della parola: figurazione e progettazione, tecnica materiale di rappresentazione visiva e atto mentale di prefigurazione fabbricativa. In gioventù, Fletcher (classe 1931) volle ed ottenne una educazione fuori del comune, tra Uk e Usa, grazie a docenti quali (tra altri) Froshaug, Matter, Thompson, Albers, Rand (forse l’impronta più forte), trovando tra le amicizie scolastiche una cerchia di analoga qualità, inclusi i suoi futuri soci. Suae Fortunae Faber, Fletcher nel suo decennale percorso formativo superiore peregrina così dalla Londra del bigio dopoguerra e degli angry young men all’euforica affluente altra sponda dell’Oceano e oltre, in un itinerario che si conclude tra Los Angeles, Caracas e Milano. Al ritorno a Londra (1959), avvia un talentuoso team-work, con la spigliata partnership creativa Fletcher Forbes Gill (1962), trasformatasi presto in Crosby Fletcher Forbes (1965), attiva per un parco di clienti fin dal principio di tutto rispetto, secondo una prassi fondata sul primato ideativo. “Every job – soleva infatti ripetere Fletcher – has to have an idea”: “la nostra tesi – precisava in Graphic Design: Visual Comparisons del 1963 – è che ciascun problema grafico abbia un numero infinito di soluzioni; che molte siano valide; che le soluzioni debbano derivare dalla natura del tema; che il progettista non debba avere uno stile grafico preconfezionato”. La compassata tradizione del modernismo britannico, poco appariscente ma ricca di esempi significativi, soprattutto di public design (a partire da istituzioni come il London Transport), e l’astinente dogmatica esperienza contemporanea della “grafica svizzera” veniva così ibridata, negli anni della Swingin’ London, dal potente, allegro e gioioso wit di Fletcher e soci, con risultati sorprendenti e memorabili. Nel frattempo, tra anni sessanta e settanta crescono – almeno fino alla prima grande crisi del petrolio – la fiducia nelle performances dello “stile internazionale” delle agenzie di visual design e le chances di grandi studi di corporate image, come l’olandese Total Design o l’italo-americana Unimark. In questo clima, ancora di Fletcher è l’invenzione del (poco amato) nome di Pentagram (1972), design consultancy multinazionale (tutt’oggi assai attiva) in cui confluisce la sua precedente formazione, ampliandone – a lungo andare – confini e committenti oltre la misura congeniale a Fletcher, che la abbandona vent’anni dopo (1992), lasciando in eredità di “una girandola continua di invenzioni, – come ha ben colto Andrea Rauch – colte e raffinate, sorrette da un’intelligenza beffarda e invadente”. Da allora fino alla sua recente scomparsa, Fletcher ha potuto dedicarsi con maggior libertà alle sue più personali inclinazioni e ricerche, spinte da un perdurante entusiasmo nel “tentare di ridurre qualsiasi cosa – come egli stesso dichiarava – alla sua assoluta essenza”, per evitare le trappole stilistiche. Documento straordinario di queste ricerche è un libro (covato da Fletcher per quasi vent’anni), il cui titolo riassume un programma di vita, la sua way of life, e cioè The Art of Looking Sideways (2001): la capacità (laterale) di mantenere un sguardo critico, senz’esser barbogio, sul mondo.

28.8.06

[2006#0] QVERINI

QVERINI STAMPALIA

Allo sguardo di chi, per accedere al palazzo Querini Stampalia, si accinga ad attraversare il ponte-passerella o si trovi a sostare, per ammirarne il disegno, nel campiello Querini da cui si libra con lieve eleganza, difficilmente sfuggirà quel luminoso riquadro che campeggia in alto, sospeso – come suggerisce l’ombra – sulla facciata, tra la finestra sovrastante la bucatura d’accesso e la quadrifora balconata del piano nobile. È la targa dal fondo dorato, ove si legge il nome del palazzo: un prezioso sigillo monumentale, impaginato con esperto calcolo di proporzioni e di equilibri tra pieni e vuoti. Si tratta di un episodio ulteriore di quell’arte del congiungere, congeniale al suo autore, coniugata a un esercizio raffinato di archigrafia, la letterale scrittura architettonica, reiteramente praticata da Carlo Scarpa. In questo suggello lapideo trovano infatti accordo la figura del quadrato dorato di fondo, la scritta sbalzata in maiuscole (scelta in sé non ovvia, viste le preferenze di Scarpa in situazioni diverse e anche nello stesso palazzo, ove si trova un’altra targa, che dialoga con questa esterna – il tema dell’archigrafia scarpiana è ancora da indagare) e il sottostante stemma araldico in bassorilievo, entro una sottile cornice. Quest’ultima è un articolato, esile ma sicuro fermaglio che accoglie simmetricamente ai lati un nastro (alleggerito da una foratura attentamente dimensionata e concluso in modo curvilineo) e al vertice un terminale ansato, a bocca di anfora, definito esternamente da raccordi a quarto di cerchio e internamente scavato da una gola a sezione costante, alla quale corrisponde l’interruzione della cornice in basso. Soffermando l’attenzione sulla scritta, posizionata nel centro ottico del quadrato, si nota che è composta a lapide, ossia è centrata sul proprio asse verticale, in modo abilmente temperato: con un leggero e accorto slittamento a destra della parola QVERINI, per meglio appoggiarsi sulla compatta STA iniziale di STAMPALIA, salvaguardando al contempo l’equilibrio dei contrografismi – tra la T e la Q, in particolare. La scelta del repertorio letterale rimanda immediatamente alla lapide monumentale antica, classica, più precisamente alle capitali epigrafiche imperiali romane, che costituiscono (con minimi adattamenti evolutivi e integrazioni) il complesso delle maiuscole del nostro attuale alfabeto; ciò è confermato, tra l’altro, dall’uso antiquario del segno V per la U (separazione affermatasi più tardi) nella parola QVERINI. Nel segno della tradizione formatasi a Roma e divenuta convenzione prevalente, anche queste lettere hanno i piedi per terra, per così dire, ossia si appoggiano a una immaginaria linea di base, a differenza di altre consuetudini scrittorie, storicamente precedenti ma non solo. Fanno eccezione la T e la I di STAMPALIA, rialzate per economia di composizione (STAMPALIA risulta più stretta e meglio si rapporta con la sovrastante QVERINI, senza troppo “uscire”) ma non immemori di analoghe soluzioni o, anche, rimedi dell’epigrafia classica, tra l’altro non rare proprio per la T e I (talora allungate, per ragion ottica). La massima parte delle epigrafi classiche veniva realizzata dal lapicida in scavo, per asporto di materia, dopo che, secondo una delle ipotesi più accreditate al proposito, l’ordinator le aveva tracciate con pennello piatto (donde le grazie ossia i sottili tratti terminali, in genere simmetrici, secondo la stessa ipotesi, nei punti di “entrata” e “uscita” del segno), con solco a v in sezione, successivamente dipinto di nero in molti casi. Questa iscrizione, invece, è in rilievo e ricorda piuttosto l’altra, alternativa e più rara, soluzione classica, con lettere fuse in bronzo (di medesimo disegno di quelle dipinte e poi scalpellate), inalveolate entro sedi scavate a misura e fissate con piombo fuso, risultanti in epigrafi in leggero rilievo, molto più costose e a lor modo ancor più preziose, riservate a occasioni d’eccellenza, se non d’eccezione. In sintesi, dunque, la struttura della scritta e delle lettere scelte da Scarpa è quella archigrafica per antonomasia; resta da chiedersi, in quale accezione e da quale modello o fonte che dir si voglia – visto che, nei secoli, di interpretazioni del disegno delle capitali epigrafiche classiche se ne son succedute non poche, e assai significative? Si può ragionevolmente ipotizzare al proposito il suggerimento o, quantomeno, il consiglio e la consultazione, da parte di Scarpa, di un personaggio a lui familiare e sodale, quale Hans Giovanni Mardersteig (1892-1977), illustre studioso del campo (in particolare, della calligrafia umanistica e della tipografia rinascimentale), oltre che disegnatore di caratteri (Griffo, Zeno, Pacioli, Dante, Fontana, Zarotto) e stampatore di straordinaria qualità (prima con l’Officina Bodoni a Montagnola presso Lugano e poi con la Stamperia Valdonega presso Verona, ancora attiva). In un primo momento, anche in relazione all’ipotesi di un probabile scambio tra Scarpa e Mardersteig sul tema, si potrebbe pensare a una fonte quale i tipi aldini, ai caratteri incisi dal Griffo (l’eccelso punzonista di Aldo Manuzio, alla cui opera Garamond – tra altri – palesemente si ispirerà per uno dei tipi tuttora più diffusi) nel 1495 per il De Aetna, ad esempio, che non distano molto da quanto appare nella targa. Ma la peculiarità di disegno di alcune lettere della scritta QVERINI STAMPALIA suggerisce di cercarne il modello altrove, anche al di fuori dell’ambito del disegno dei tipi a stampa, come si addice a un’archigrafia monumentale. In particolare, si devono osservare: la Q, che in genere nei caratteri incisi dal Griffo (come in tutta la tradizione antica e calligrafica) ha una coda molto più sviluppata, sinuosa e avvolgente (anche se non manca una forma simile a quella della Q di QVERINI nei tipi del De Aetna); la coda della R, rigida, molto lunga (con l’effetto di allontanare la lettera successiva oltre l’usuale), un po’ impacciata e mal raccordata al disegno della P, da cui deriva; la posizione molto alta, verso la testa, dell’asta orizzontale della A; soprattutto, le grazie convergenti nell’asta orizzontale della T, una soluzione assente da qualsiasi carattere tipografico, aldino o meno - una vera idiosincrasia formale. Nei disegni noti di Scarpa per la targa si riconosce, del resto, l’affinamento da una prima versione, in cui le lettere sono prive di grazie (come accade frequentemente nell’epigrafia romana repubblicana, in specie in quella più antica, e poi in quella rinascimentale fiorentina del Quattrocento), alla soluzione poi eseguita, con lettere graziate, in cui la mano del progettista insiste sulle sequenze più difficili e torna sulla forma intrinsecamente complessa della Q. Ponendo mente, a questo punto, agli altri interessi e agli studi coevi di Mardersteig, si affaccia lampante la soluzione, scoprendo l’esatto, assai acconcio e autoriale modello a cui si ispira Scarpa: la lunga scritta tracciata dall’Alberti e incisa nel 1467 con eleganti lettere maiuscole nella fascia (una dedicatoria, con lettere di identico disegno, si trova nel riquadro sopra l’accesso) della trabeazione del sacello Rucellai in san Pancrazio a Firenze, ove si legge – tra l’altro – QVERITIS, le cui prime cinque lettere sono le stesse prime cinque di QVERINI. L’identità di struttura nel disegno delle lettere è totale, sia nell’assieme che isolate (non solo e non tanto per la Q, quanto per la R e la T; ma si devono osservare anche la M, la S, la P con la coppa non raccordata all’asta montante). La differenza, visibilissima, sta tutta nello spessore del tratto delle aste: sottili (e/perché incise) in Alberti, spesse (e/perché in rilievo) in Scarpa. In altri termini, Scarpa riprende “alla lettera” (niente di più appropriato, in questo caso) il ritmo e la struttura di disegno dell’Alberti, allargando proporzionalmente e abbastanza decisamente il ductus (ma non le grazie) dei segni – analogamente a quanto accade nelle famiglie di tipi a stampa, nel passare da serie chiare a serie scure, sullo stesso scheletro. Le ragioni di questo rafforzamento di “colore” (come si usa dire in termini tipografici) sono facilmente intuibili; in primis la leggibilità nel contesto specifico ma anche la personale sensibilità ottico-materica, associata ad un’altra testimonianza delle ”intenzioni” da scoprire del progettista, nel concreto della colta reinvenzione albertiana: “un’enorme volontà di essere dentro la tradizione”.

[in AA.VV., Carlo Scarpa. La Fondazione Querini Stampalia a Venezia, Electa, Milano, pp. 44-47]

27.4.06

[2006#0] tipografia visibile

Tipografia visibile

Tra i compiti di una rivista specializzata come “Progetto grafico” – in un paese, come il nostro, ancora non troppo ricco di letteratura (nonché di traduzioni di classici) in ambito visuale specifico –, non ultimo impegno è quello di far conoscere i fondamenti della disciplina che la intitola e le diverse tradizioni che la innervano. A questo fine, è auspicabile la presentazione (periodicamente ripetibile, per le nuove generazioni) di documenti e testi storici, in particolare quelli più vicini alla contemporaneità, per la presa che ancora possono avere sull’operare di ciascuno ma anche ai fini di una rilettura critica, secondo la prospettiva non immobile dell’analisi storica.
La traduzione di un testo quale The Crystal Goblet di Beatrice Warde, dalla redazione ultima del 1955, offerta qui nella pregevole veste di una edizione ad hoc, risponde in pieno a tale compito e rappresenta un basilare tassello di una ideale antologia del pensiero grafico contemporaneo nella nostra lingua, analoga ai vari fortunati Graphic Design Reader in ambito anglosassone.
Quanto si legge in The Crystal Goblet va collocato, inquadrato e inteso nel suo preciso contesto, sia storico (lo stato dell’arte della cultura tipo-grafica nel mondo anglosassone dei primi anni trenta, quando è stato originariamente steso il testo), sia biografico (la singolare vicenda di una fascinosa donna-in-carriera di singolari meriti intellettuali e capacità promozionali); ben vi provvedono altre pagine di questa rivista, ça va sans dire.
Acclarato e acquisito ciò, sono anche convinto che alcunché di canonico, come The Crystal Goblet, reclami un po’ di spirito laico; in primis: (ri)leggere, senza pregiudizi di sorta, come fosse la prima volta.
È quanto ho tentato di fare; con una certa qual delusione e delle domande, a cui non so rispondere con certezze pari a quelle che l’autrice esibisce.
Delusione, per lo scarso appeal letterario intrinseco, la debolezza delle argomentazioni, il divagare dei periodi – insomma, ci si ritrova di fronte a un testo occasionale e celebrativo, non troppo strutturato, un po’ noioso e abbastanza supponente.
Domande, perché le certezze apodittiche e le antinomie senza sfumature del testo suscitano dubbi e reclamano verifiche.
La metafora su cui si fonda il testo forse è fragrante, come scrive l’autrice, e certamente efficace (se non altro, per l’enorme fortuna e diffusione che ha avuto) ma è condivisibile l’idea che: “tutte o quasi le virtù del nostro calice ideale hanno un parallelo nella tipografia” poiché “tutto […] è calcolato per rivelare, anziché nascondere, la bellezza […] che contiene”? Esiste davvero una così radicale differenza tra “forma” e “contenuto” o si può azzardare che la “forma” sia un “contenuto” e viceversa?
Dobbiamo convenire con quell’idea “modernista”, per cui anche la nostra prima domanda sarà: “A cosa serve?” e non “Che forma deve avere?” – “e in questo senso è modernista ogni esempio di buona tipografia”? La cosidetta funzione è amorfa? Non possiamo permetterci, traducendo in termini contemporanei, di definire, articolare e corroborare la prestazione utile con una interfaccia di adeguato comfort e usabilità?
Pensiamo ancora che “compito della stampa è comunicare idee specifiche e coerenti […] ciò che conta soprattutto è il suo carattere eminentemente pratico“? Tutto qui?
Infine, siamo tutti convinti che “un carattere usato come si deve è invisibile”? La tipografia, insomma, deve essere proprio “trasparente e invisibile”, come reclama l’apex del discorso, o si tratta di un piacevole espediente retorico ad effetto, frutto di una polemica importante ma datata? Una meditata consapevolezza della dialettica leggibilità/visibilità del carattere/testo, maturata nella composizione della pagina, non è forse uno dei fondamenti stessi della progettazione tipo-grafica?
Forse è fin troppo facile smontare gli assunti di The Crystal Goblet ed è certo meglio assaporarlo, come un vino assai invecchiato, per il suo indubbio valore di documento, di un’epoca e di una mentalità, comprendendolo entro la sua cornice storica.
Vien da chiedersi, però, se la nostra brava Beatrice avesse mai provato davvero a bere del vino da una coppa d’oro, magari alla temperatura giusta…

[in “Progetto grafico” (Milano), 8, giugno, p. 177]

13.3.06

[2006#1] dall’aurale al digitale

1Dall’aurale al digitale
Flessibilità e flessi del comunicare

Nell’ambito complesso e plurale della comunicazione umana, a fianco dei sistemi non verbali (tutt’altro che trascurabili ma di cui non ci occuperemo), per prima si è strutturata l’oralità, in forma di espressioni aurali ossia legate al circuito bocca-orecchio. “In principio era il verbo”, non a caso si legge nelle Scritture: alla primigenia conservazione e tramissione delle culture umane ha provveduto la voce, accompagnando le fasi più recenti dell’ominazione e la fuoriuscita della specie dalla “preistoria”. Verba volant, spiega un motto di origine medievale, cogliendo un carattere critico della cultura orale, la sua relativa labilità e, di conseguenza, il suo assetto statico-formulaico, ripetitivo e paratattico, alieno da categorie e astrazioni mentali. Flessibili dunque le forme, come dimostra la perdurante felice Babele delle lingue umane (una preziosa biodiversità, ormai anch’essa in pericolo), ma non altrettanto i contenuti, per la struttura intrinseca del sistema orale. Scripta manent aggiunge lo stesso motto, esplicitando di converso la pregevole durabilità delle scritture, con conseguenze di larga portata, in primis la replicabilità cumulativa del tracciamento visivo dell’idea-pensiero e della parola-suono. Per convenzione e forse anche per pregiudizio, siamo abituati a far coincidere l’inizio della “storia” con l’invenzione e il lento ma inarrestabile avvento planetario della scrittura, straordinario flesso nella comunicazione umana, che ha spostato lentamente il fulcro dall’aurale al visivo, in coincidenza col sorgere di comunità antropiche complesse, gerarchizzate, sedentarie, territorializzate, ed ha affiancato un sistema di comunicazione a un altro, senza duplicarlo.
Per la nostra cultura occidental-alfabetica, scrivere significa tracciare segni-suoni, che derivano dalle lettere delle scritture naturali, dalle chirografie alfabetiche: sistemi di notazione manuale delle emissioni fonetiche, fondati sulla rappresentazione in particole discrete delle componenti del tessuto sonoro verbale. Sono forme di codificazione della comunicazione, della lingua e del pensiero, radicalmente diversi, in quanto a economia mediale e diffusiva del sapere, rispetto ai repertori sillabici da cui derivano e rispetto anche ai sistemi ideografici, peraltro efficacemente in uso in ben ampie aree geografiche del mondo. Le scritture hanno lasciato le loro prime tracce documentate circa seimila anni fa, quando tratti grafici ripetibili e riconoscibili hanno per la prima volta reificato, isolato, spezzato, informato e reso distinto il continuo auditivo della comunicazione in pittogrammi (segni questi che rappresentano immagini invece che suoni), concettualizzandola in simboli. Solo assai più tardi, attraverso un lungo processo genealogico, il tessuto sonoro della lingua si è rappreso in lettere, in segni di suoni, distraendosi dall’originaria immagine figurale di cose/idee rappresentabili, per farsi codice condivisibile. L’invenzione – per così dire – delle vocali, la loro iscrizione in lettere, frutto del mondo ellenico, è di pochi secoli anteriore all’era cristiana; la conseguente estrema riduzione dei segni (inferiori ai trenta) dell’alfabeto, operata dai greci meno di tremila anni fa, rispetto agli assai più complessi sistemi sillabici medio-orientali anteriori, ha resa visibile – in modo straordinariamente efficace, preciso ed economico – la parola, per riversarsi nel sistema dell’alfabeto latino, delle lettere romane, egemone in occidente. La matura conquista classica dell’alfabeto risulta, dunque, in un codice notazionale di lettere, in un convenzionamento di segni, tanto efficace dal punto di vista delle prestazioni quanto flessibile da tracciare e semplice da apprendere, dotato di notevole stabilità ma non perciò sottratto a variazioni morfologiche lungo l’asse del tempo. Ogni scrittura diviene però visibile, si realizza, si effettua soltanto nel suo materiale farsi segno fisico; ogni impronta letterale è risultante dell’interazione tra due attori: lo strumento che traccia e il supporto su cui si traccia. A seconda della loro natura, la storia – in estrema sintesi – ha visto evolversi e trasformarsi gli alfabeti, lungo poco lineari percorsi, in due filoni: le “archigrafie” e le “calligrafie”, per usare etichette di comodo.
Nelle prime, risuona l’accezione più antica dell’etimo greco di “grafia”: scavare, raschiare, scalfire, incavare - “sémata grápsas en pináki”, “tracciati i segni nelle tavole”, si legge nell’Iliade. È il lavoro dello scalpello (o, meglio, di ogni strumento atto a togliere e incidere la materia del/dal supporto, come per lo scultore) che ha disegnato pazientemente, nelle tre dimensioni, per asporto e scavo, l’enorme parco testuale graffito in stele, lapidi, fregi e insigni monumenti classici (e ancor prima, assiro-babilonesi, e ancor più, egizi), vero libro parlante dell’antichità. Da una parte, dunque, un metodo “duro” che tramite un levar di tratti (in positivo o in negativo) iscrive lettere definite da contrasti chiaroscurali. È la rigidezza archigrafica: pratica incisoria, dal lento tracciamento, che mal sopporta indecisioni e tantomeno errori; scrittura di lunga durata, in supporti durevoli e sostanzialmente immobili, dal segno strutturalmente lapideo, intimamente connesso con le qualità proprie del materiale per eccellenza dell’architettura. Il repertorio che chiamiamo comunemente “maiuscole” ne è il lascito evidente. La capitale dei monumenti romani, che in epoca imperiale si arricchisce dei tratti terminali noti come “grazie”, è una delle due componenti sostanziali del nostro alfabeto, di eccezionale unitarietà formale e coerenza in un arco storico-geografico plurisecolare, obbediente a dettati percettivi rigorosi quanto rifuggenti geometrie elementari, in virtù di una plastica sensibilità alla luce e alle.
Dall’altra parte, invece, un metodo “molle”, che scrive lambendo e coprendo il supporto di uno strato, lasciando una saliva, un succo, una bava sulla scia del proprio passaggio. La “calligrafia” come tracciato bidimensionale, macchia, opacità: lo strumento tracciante (canna, penna, pennello, pennino e simili, propri anche al pittore) è un deposito di liquidi scuri e oscuranti (in principio, nero-fumo in sospensione), che non toglie ma aggiunge sulla superficie del supporto un visibile segno del proprio passaggio. L’orma piatta del movimento continuo della mano (non l’urto di un’erosione-asporto fisico) vela un fondo neutro e assorbente. Dunque, una scrittura ove meglio risuona l’altra polarità che convive nell’etimo greco di “grafia”: dipingere, figurare, rappresentare. In essa, la piacevole venustà delle tracce, la tattile sensuosità delle scie, la scioltezza del tratto trovano individuale, personale, autoriale espressione. Tendenzialmente continua e fluida, la “calligrafia” esalta la velocità di stesura, il valore figurale dei singoli segni alfabetici, le possibilità di legatura nei poligrammi delle parole e delle abbreviazioni: scrittura intimamente flessibile, di durata relativamente breve, in supporti effimeri e sostanzialmente mobili, dal segno strutturalmente morbido. Alla vis sottrattiva della “archigrafia”, corrisponde dunque la natura additiva della “calligrafia”, il cui lascito più forte nella storia del repertorio alfabetico è – non a caso – la famiglia di lettere che chiamiamo “minuscole”, al termine di un plurisecolare processo di elaborazione corsiva, tachigrafica della lettera rustica latina, cioè delle forme di scrittura classica quotidiane, correnti, non monumentali,.
Alla metà del quattrocento, più o meno quindici secoli dopo il formarsi dell’alfabeto, si manifesta un nuovo, straordinario flesso nella storia della comunicazione umana, con la nascita della cultura tipografica, della scrittura artificiale, intrinsecamente non flessibile. I “tipi mobili” di Gutenberg sono oggetti fisici, tangibili, manipolabili, discreti: lettere a rilievo, in blocchetti di lega di piombo fuso, costitutivamente isolate e separate le une dalle altre, veri tridimensionali monogrammi che vengono affiancati, a rovescio, a comporre le parole, le righe, le colonne, le pagine dei testi. Unita in una forma, la pagina di piombo viene inchiostrata e la sua impronta si trasferisce a pressione sulla carta, scavandola leggermente e depositandovi l’inchiostro. Questa, sommariamente, la stabilissima tecnologia che si trasmette inalterata dalla metà del quattrocento fino alla seconda metà dell’ottocento, resistendo fin quasi i giorni nostri. Le singole fusioni metalliche dei tipi sono ricavate da matrici che ripetono la forma dei punzoni, gli originali incisi (in serie di diverse dimensioni, con opportune correzioni ottico-percettive al variare dei “corpi”) dai progettisti-incisori delle lettere o da abilissimi interpreti di altrui disegni alfabetici. La tecnologia estremamente stabile della “officina gutenberghiana”, il materiale medium dell’attività scrittoria post-amanuense, si è consolidata in oltre 500 anni: la perdita della flessibilità chirografica è stata ampiamente ricompensata dalla nascita della cultura del libro meccanico a stampa, di cui siano eredi diretti. Il disegno dei caratteri “mobili” della scrittura artificiale, il progetto dei “tipi” (seriali e componibili) della letteratura a stampa è il prototipo stesso del disegno industriale, di quella rivoluzione produttiva che muterà il mondo dalla fine del settecento, a partire dalla Gran Bretagna, ma di cui la stampa, come processo d’ideazione, produzione, distribuzione e consumo ne è l’antesignana diretta. Gli ultimi decenni dell’ottocento, però, mutano la grandiosa tradizione secolare di paziente ricerca e di lento perfezionamento tipografico. La comparsa di macchine compositrici, quali la Linotype e simili, a sostituzione della lunga preparazione manuale del testo, accoppiata alla diffusione del pantografo, quale strumento per la preparazione dei punzoni, segna con la fine dell’ottocento l’inizio di un processo di crisi, che il novecento ha amplificato e concluso. Nella seconda metà del novecento, con una accelerazione invasiva dalla seconda metà degli anni ottanta, è mutata radicalmente tutta la fase di preparazione, la “prestampa”: la fusione “a caldo” dei tipi è ormai archeologia industriale (e nostalgia, talora), sostituita dai procedimenti “freddi” di fotocomposizione e oggi dal “virtuale” dei computers. Dopo la chirografia e la tipografia, è comparsa una nuova forma di scrittura, ancor priva di un nome proprio e condiviso: infografia, digigrafia, bitgrafia? Comunque lo si voglia chiamare, il tipo digitale ha finito per eliminare il piombo plurisecolare. La tecnologia è rapidamente evoluta; dalla fine degli anni ottanta, con il linguaggio PostScript di descrizione di pagina (fondamento della prestampa odierna), si utilizza una descrizione geometrica vettoriale scalabile delle lettere, definite dai loro contorni ossia da una assoluta flessibilità potenziale di forma. Una nuova consapevolezza della natura originale, unica e complessa, del tipo digitale si va diffondendo, con una diversa maturità problematica, dopo l’orgia indigesta di tanta produzione di fine novecento, sospesa sull’onda di entusiasmi neofiti, intemperanze trasgressive e appetiti di mercato. Il tipo digitale deve rispondere, del resto, a esigenze più ampie e diversificate del tipo disegnato per la stampa, per l’inchiostro e la carta. L’affermazione evidente del monitor, di uno “schermo” (inclusi quelli di palmari, cellulari e quant’altro) come nuovo supporto, radicalmente diverso dalla carta (non ultimo il fatto che questa assorbe la luce, invece di emetterla) impone il disegno di alfabeti per lo schermo, ove le lettere possono anche mutare colore, contorno, disposizione nonché muoversi o emettere suoni, nei casi (rari) in cui sia sensato. Tutto ciò non può prescindere, però, specialmente in normali circostanze editoriali, dalla consapevolezza che l’assoluta flessibilità virtuale del digitale nell’ambito della comunicazione dev’essere in primo luogo al servizio del comfort visivo, della leggibilità del testo, dell’onestà e dell’usabilità dell’informazione.

[in “Multiverso” (Udine), 2, pp. 54-57]
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