notizie di architettura
05 luglio 2005
  Armando Brasini
Roma - Il Castellaccio dei fantasmi dell'architetto-alchimista
'Ho ascoltato a lungo il solito tramestìo, lo scalpicciare che mi faceva sempre pensare che sopra qualcuno stesse dando una festa'
Nella villa-paese di via Flaminia progettata da Armando Brasini Svetta, con i suoi mille tetti diversi, e si impone come qualcosa di misterioso Il ponte Flaminio è stato progettato da Armando Brasini, come la basilica del Sacro Cuore Immacolato di Maria a piazza Euclidae, Villa Manzoni, il Buon Pastore... Gli interni del Grand Hotel, grotteschi ed elegantissimi, lusso e metafora della sua decadenza che si rincorrono in una gara estenuante. Armando Brasini, l'architetto «maledetto», non è in effetti un architetto, ma un decoratore. Almeno di formazione. Di famiglia povera, era stato allievo di una bottega dove si facevano stucchi, e nella quale si era messo in luce rapidamente per le sue strabilianti doti di tecnica e creatività. Quanto alla maledizione, la faccenda è più complessa. Dal ponte Flaminio, affacciati sul lato che si percorre andando verso i Parioli, la villa Brasini sembra un paese, la citazione di un borgo dell'alto Lazio, incassato dentro edifici moderni. Svetta, con i suoi mille tetti diversi, e si impone, anche allo sguardo veloce di macchine e motorini che sfrecciano sul viadotto, come qualcosa di misterioso. Non è seducente, non ti fa venir voglia di fermarti e darci un'occhiata. E' piuttosto come una specie di lapsus. Mentre te ne corri verso i tuoi appuntamenti cantando a squarciagola per la gioia della primavera e la città ti scivola accanto, hai un minuscolo sobbalzo. Un picco sull'elettrocardiogramma. Registri una strana presenza, incongrua, un po' inquietante. Io ci sono passata milioni di volte, e milioni di volte ho detto: ma che diavolo è? Il giorno in cui ho deciso di scoprirlo, ho sbagliato indirizzo. Sono capitata dentro villa Valadier. Per colpa di un cartello tendenzioso e della mia solita distrazione. Una volta dentro ho finto per tutto il tempo che ho potuto di essere una sposanda in cerca di una sala per il rinfresco. Avrò retto un minuto, due. Poi sono crollata e ho confessato tutto davanti a un uomo molto alto e comprensivo che - a ennesima dimostrazione che nella vita il meglio viene a caso - subito dopo avermi spiegato che mi trovavo nel posto sbagliato mi ha rivelato di essere stato proprietario per circa vent'anni di Villa Brasini, quella vera. Che si trova qualche numero civico più avanti, al 489, sempre sulla via Flaminia. Non di tutta la Villa, ovviamente. Talmente grande e complicata da essersi guadagnata il nomignolo di «castellaccio». Un agglomerato di edifici e parchi, scaloni e cortili segreti, protetto severamente da guardie giurate che vigilano sulla privacy dei misteriosi vip che abitano la parte più moderna, a nord. Quell'uomo, Guido Montineri, era stato proprietario della parte che guarda Ponte Milvio, e che viene affittata per cerimonie e rinfreschi. Il corpo più vecchio, quello nel quale il Brasini ha profuso la sua fantasia e un po' di reperti, si dice, trafugati durante gli sbanchi di Via della Conciliazione e Via Giulia. Il solito stile metamorfico e onirico dell'architetto adorato da Mussolini e poi scaricato, si dice, per aver accettato di partecipare a un concorso per la ristrutturazione del Cremlino. Il centro di questo edificio è un bellissimo ninfeo, con una fontana, due enormi conchiglie e le statue che si sporgono dal muro come volessero sfiorarti. Si dice che si trovi sul punto esatto in cui venivano allestiti roghi per bruciare le streghe. Si dice anche che si trovi sul punto esatto in cui si incrociano chissà quale ascissa e quale coordinata dell'invisibile rete energetica che attraversa e sorregge la terra. Si dice, si dice, si dice. Il racconto di Guido Montineri, che ha conosciuto l'architetto «maledetto» e lo descrive come un uomo di infinito carisma, affascinante e potente, è sospeso sempre sul filo del dubbio, è appoggiato a quello scetticismo del quale l'intelligenza non può fare a meno. Però porta sfortuna la villa, mi dice. A me ha portato sfortuna, e anche agli altri proprietari. Questo è certo. E ci sono anche altre cose certe. Per esempio l'altro suo nomignolo. La chiamano Villa del Pianto. Perché durante la guerra, è stata un quartier generale della Gestapo. Ci facevano gli interrogatori qua dentro, le esecuzioni. Si dice che Armando Brasini si sia salvato dalla furia scomposta dei nazisti rivelando loro un segreto: il modo in cui liberare, senza romperlo, un vaso prezioso dal pavimento nel quale era stato interrato. Si dice. Dentro quella casa si sentono sempre dei rumori. Dentro quella casa hai sempre la sensazione di una presenza. E' difficile da spiegare, mi racconta Guido Montineri. Immagina di stare in un posto con moltissimo vento che ti preme sul petto, sul volto, contro il quale sei costretto a fare resistenza. E quando hai immaginato la sensazione con esattezza, togli il vento. È così che ci si sente là dentro, come se qualcosa che non c'è ti si spingesse addosso. Un giorno ho comprato un'enorme quantità di farina e l'ho sparsa sul pavimento dell'ultimo piano. Sono sceso. Ho ascoltato a lungo il solito tramestìo, il rumore dei passi, lo scalpicciare che conoscevo e mi faceva sempre pensare che là sopra qualcuno stesse dando una festa. Quando sono salito, ho visto quello che già sapevo: la farina era intatta, non una sola orma l'aveva violata. Qualcuno racconta che una sera, dopo una cena in villa alla quale avevano partecipato varie personalità note nell'ambiente esoterico della capitale, ci sia stato un omicidio. Forse più di un omicidio. E che quei cadaveri scomparsi siano finiti dentro qualche muro via via che la fabbrica del castellaccio andava avanti. Un'altra cosa certa è che Armando Brasini fosse un appassionato di alchimia, e un massone. Per se stesso, aveva inventato un blasone composto tra tre colline con una mezzaluna sotto e un leone sdraiato. Una specie di rebus alchemico. E ovunque, sui muri dei vari edifici che compongono la villa, ha disseminato bassorilievi e decorazioni che possono essere letti in chiave esoterica. Sulla parete in cima a una bella scalinata, proprio di fronte all'entrata principale, c'è una specie di grande mattonella scolpita. E' composta da tre palle iscritte in un quadrato. Guido Montineri me lo mostra e mi spiega che certi notti, esattamente le notti in cui cambia la luna, avviene uno strano fenomeno. Mentre il quadrato scurisce, le tre palle diventano più chiare, dorate. E brillano. Sembrano quasi staccarsi dal fondo. Cubi e sfere, la quadratura del cerchio. Il problema per eccellenza. Per gli alchimisti era una specie di rappresentazione della perfezione. Il cerchio è infatti uno stato radiale, una condizione di espansione assoluta, una creazione all'ennesima potenza. E il quadrato, dentro al quale si iscriverà, è la sua fissazione. Il perimetro nel quale l'eterno movimento si imprime in un equilibrio che è il punto finale del ciclo. Il luogo ultimo. Brasini era un illusionista. Capace, grazie alla sua abilità di decoratore, di trasformare qualsiasi superficie in marmo pregiato, semplicemente riproducendone le venature. Bisogna passarci sopra le dita, mi spiega Guido Montineri, per accorgersi dell'inganno. Sapeva trasformare la materia, il sogno di ogni alchimista. E che sia un solo un gioco di prestigio, in fondo, non fa alcuna differenza.
Elena Stancanelli
[fonte]
 


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