9.7.04

[1999#08] matthew carter

«Potrà comprendere appieno l’arte solo chi non le imporrà una finalità estetica né simbolica, perché essa è assai più che un oggetto di eccitazione estetica e, più che illustrazione, è linguaggio al servizio della conoscenza»
Konrad Fiedler, Aphorismen, 36

Il non flere non indignari sed intelligere, proclamato e reclamato da Baruch Spinoza, nel grandioso corso del secentesco Gouden Eeuw (il Siglo de Oro neerlandese), ben esprime la hybris razional-astratta che è diuturno portato dell’esprit de géométrie impiantato da Renato Cartesio nei fertili terreni filosofico-pratici dei Paesi Bassi, sua seconda e vera patria; a buon diritto, il motto spinoziano potrebbe trovar posto in esergo a un immaginario medaglione accademico di Matthew Carter. A merito del grande designer va, infatti, ascritta in primis una elasto-plastica intelligenza progettuale, ossia la capacità di adottare (mettendoli a selettiva prova) strumenti e tecnologie forgiati dal rincorrersi incessante dell’evoluzione produttiva moderna, senza tema alcuna né inutili nostalgie, tanto quanto di adattarli alle assidue necessità di espressione prestazionale e di conformazione comunicazionale, proprie di ogni artefatto umano che non sia né banalmente cosmetico né futilmente modajolo, bensì meta ed esito di una razionale etica del lavoro progettuale. Restando nei medesimi dipressi filosofici, all’ultra-quarantennale carriera di disegnatore di caratteri di Matthew Carter si potrebbe dunque appropriatamente attribuire anche il titolo imprestito di ethica more geometrico.
Classe 1937, nato nel Regno Unito di Sua Graziosa Maestà Britannica, in un certo senso figlio d’arte, perciò forse predestinato dalla sorte stessa d’avere un padre quale il suo (Harry Carter, noto storico dell’arte dei punzoni e dei plumbei secolari tipi da stampa, nonché archivista presso la degnissima Oxford University Press), il nostro Matthew inizia il suo apprendistato professionale -vedicaso- in Olanda, non ancor ventenne e fresco di scuola superiore, con vaghi piani universitari (Oxford, of course). L’internato di un anno presso la scuola severa della veneranda officina tipo-editoriale Enschedé, ove impara l’arte d’incider punzoni con PH Rädisch, assistente di Jan van Krimpen, dev’esser stata per Matthew Carter esperienza di intensa folgorazione, come dire?, sulla via di Haarlem, a giudicare dagli esiti successivi. Infatti, superati di lì a breve gli esami d’ammissione all’esclusivissimo ateneo oxfordiense, il nostro ne rifiuta l’accademismo conservatore e un po’ stantio («English at Oxford was all Beowulf, -ricorda Matthew Carter, al proposito, in un’intervista del 1996- nothing modern») per intraprendere una straordinaria carriera nelle arti della stampa, supportato con sua sorpresa dal tipofilo padre. Troppo lungo sarebbe qui rintracciarne analiticamente e puntualmente la vicenda, come merita e ancor non s’è forse fatto appieno. Basti sapere che per sei anni, dopo l’esperienza olandese, Matthew Carter lavora come Freelance Type & Lettering Designer a Londra (del 1961 il suo Dante semi-bold, che esegue sotto la direzione di John Dreyfus e Giovanni Mardersteig), per diventare nel 1963 consulente della Crosfield Electronics (distributore inglese della primeva Photon/Lumitype: MC entra così in contatto con la parigina Deberny et Peignot e il direttore artistico della medesima, il venerabile Adrian Frutiger), affrontando per tempo il passaggio dai punzoni per il piombo alle maschere ottiche e ai successivi pixellaggi per la prima fotocompositrice industriale. Nel 1965, Matthew Carter si trasferisce nel Nuovo Mondo: lavora a New York per la Mergenthaler-Linotype, ove incontra Mike Parker e Cherie Cone, disegnando i caratteri Snell Roundhand (figlio legittimo delle possibilità nuove di legature della fotocomposizione) e Helvetica Compressed, oltre a vari altri tipi, ad esempio greci e coreani. Sei anni dopo (che i suoi bioritmi siano esannuali?), Matthew Carter torna a Londra, mantenendo stretti legami con la Linotype; è la volta dei tipi Galliard (un redesign delle secentesche forme di Robert Granjon, espressivo di uno spirito eminentemente carteriano, nella ricezione comune, eseguito in collaborazione con Mike Parker, futuro sodale anche nella Bitstream), Bell Centennial (un classico caso-studio di “problem solving”, completato nell’anno del centenario della gigantica Bell Telephone Company), Shelley Script e di molti altri, ebraici, greci, devanagari… Dal 1980 al 1984, Matthew Carter è chiamato anche alla alta responsabilità di Typographical Adviser to Her Majesty’s Stationery Office, la stamperia di stato britannica (com’è brutalmente distante la situazione del nostro paese da tutto ciò, ancora…) ed è nominato nel 1982 -grande onore- Royal Designer for Industry dalla compassatissima Royal Society of Arts. Nel concerto di questi eventi, si risveglia in Matthew Carter una inedita vis imprenditoriale; nel 1981 è tra i quattro fondatori della Bitstream (omen nomen) Inc., una delle primissime -se non proprio la prima delle- “fonderie digitali indipendenti” al mondo, con sede a Cambridge (quella in Massachusetts, Usa, non quella omonima e originaria, in Uk): nuovi strumenti di forgia vettoriali, nuovi tipi da disegnare in PostScript, per primo il Charter (ideato per la bassa risoluzione delle prime stampanti laser, epperciò parente stretto del Lucida del duo Charles Bigelow & Kris Holmes e dello Stone Sans di Sumner Stone). Una decina d’anni dopo, Matthew Carter e Cherie Cone -due dei partner fondatori della Bitstream Inc., in difficoltà per ragioni varie, non ultima di avere un catalogo di oltre 1000 caratteri, in massima parte di pubblico dominio, dati in licenza a circa 300 produttori- avviano una nuova impresa, la Carter & Cone Type Inc., ibidem. È il periodo ultimo (in senso cronologico, ça va sans dire), di caratteri crudelmente raffinati e sensibilmente interpreti della storia delle scritture (naturali e artificiali), sperimentalmente fusivi e provocatoriamente radicali, quali Alisal, Big Caslon, Elephant, Mantinia («I think he [Andrea Mantegna] is the best letterer of any painter»), Miller, Sophia (bizantinamente ibrido e densamente cupo), il geniale Walker (uno dei pochi in vera sintonia con i nostri tempi, un inedito “bastoncino poli-graziabile” da tastiera, per il trainante Walker Art Center di Minneapolis, Usa). La Carter & Cone Type Inc. ha anche pragmaticamente sviluppato su commissione tipi per Apple, «Sports Illustrated», «Time», «Us News & World Report», «Wired»; da notarsi, i loro caratteri per il www dell’internet, cioè degli autentici “tipi da schermo” (compatibili con dei normali requisiti di hardcopy), commessi dal gigante Microsoft: Georgia e Verdana -provare per credere, si installano free con Internet Explorer!
Conclusione provvisoria, meditabonda e augurale. Non prima di una finale citazione di Matthew Carter: «[disegnare] un carattere è sempre una sorta di lotta tra la natura alfabetica della forma delle lettere, la Aità delle A, e il desiderio di metterci qualcosa di tuo; è un conflitto tra la rappresentazione di qualcosa (non puoi prenderti libertà smodate nel disegno delle lettere) e la tensione di ritrovarvici un ette di te stesso». Ars longa, vita brevis, parrebbe avvisarci l’attività perdurante dell’uomo di caratteri Matthew Carter, oggi acuto Senior Critic (due per tutte, delle sue osservazioni recenti, riportate dal bravo J Abbott Miller: «movable type is now mutable type» e «technology changes faster than design») presso la Yale’s Graphic Design Faculty, a monito di chi voglia intraprendere (con studio, applicazione e passione) l’arte sublime e sottilissima dei punzoni attuali, ovverossia il disegno dei caratteri digitali. Arte ingrata, ancor per poco si vorrebbe, nel Bel Paese che vide attivo tempo addietro un certo Francesco Griffo (manigoldo sembra, quanto geniale punzonista del soave umanista-imprenditore Aldo Manuzio, tanto per rammemorarne due almeno, de’ nostri, ché la lista sarebbe lunga assai) ed è oggi nuovamente ostello di una sparuta, incerta ma (assicuro e testimonio di persona) agguerrita - più di quanto non s’immagini essa stessa - truppa di letteristi novissimi. Lunga vita a quest’arte antica, ergo, in cui fummo eccellentissimi: fervidi intensi auspici (spero condivisi) di progettuali patrii ricorsi, in una visione della storia che per l’umillimo scrivente non conosce ripetizioni, strictu sensu, ma consente dei ritorni, forse.

[Matthew Carter, uomo di caratteri, in “Notizie Aiap” (Milano), 2000, 10, giugno, pp. 41-42; idem, in “Casabella” (Milano), 2001, 690, giugno, pp. 76-83]
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