2.7.04

[1999#01] franco grignani


per Franco Grignani, Meister

Dolenti, meste, faticose note che non avrei mai voluto stendere. Perlomeno, non per questa circostanza tristissima. Li avevo evitate finora, testi di cotal fattura, anche per coloro che più m’eran cari e vicini (anche se non sempre direttamente, personalmente, mondanamente frequentati), per riserbo e rispetto, e per muto disprezzo assieme di quei tanti troppi coccodrilli prezzolati e d quelle docili banderuole che infestano e infettano con parole di risibile doppiezza la comunicazione di massa, stampa, radio e televisione nostrane. Ora mi sento costretto a farlo, a esporre con semplice e diretta ancorché urgente ovvietà le mie osservazioncelle, per un obbligo che sento etico e d’impegno civile (si minores licet) anche. A ciò son mosso dagli esempi che a noi tutti sono stati offerti, quali aspre lezioni di vita, in questa seconda brutta parte del nostro novecento -in specie, in questa squallida coda ad libitum- da molti grandi uomini facilmente dimenticati e rapidamente rimossi dalla labile memoria del nostro paese, dall’amato Bel Paese che ormai è sì distratto e cedevole alle lusinghe peggiori dell’asservimento strisciante ai molti contrastanti poteri che l’attraversano, l’un con l’altro armati o alleati a seconda delle occasioni. Poteri forti e grevi, ovunque dilaganti, all’ombra di una unica trionfante ascosa globalità; poteri economici, curiali, consociativi, accademici, editoriali, aziendali, partitici, massonici e via discorrendo -fate voi- delle orrendevolezze con cui dobbiamo far i conti ogniddì, volenti o nolenti, turandoci il naso e sgambettando in acque limacciosamente torbide, pur e per restare a galla. Infatti: “navigare necesse est, vivere non est necesse”, esortava Pompeo, secondo Plutarco, coniando un motto di medievale ubiqua fortuna, egida verbale delle città anseatiche che si legge sulla “casa del marinaio” di Brema -e ripreso ben più tardi dall’orbo veggente nella sua Beffa di Buccari. Mi riferisco a uomini (da Pierpaolo Pasolini a Manfredo Tafuri, per rifarsi al recente passato e anche per esser chiari, ché spesso m’accusan d’esser allusivo ed ellittico -ma sull’ellisse, figura geometrico-retorica eccelsa debbo tornare) serenamente spietati con il mondo e con se stessi, eppur ilari abitatori dello squallore del proprio tempo, attraversatori impavidi della crisi perenne del contemporaneo moderno, critici impietosi dei guasti della resa diffusa al conformismo e delle languide mollezze modajole dattorno, bollati come diversi e funesti, temuti e confinati come estremisti del pensiero taluni, troppo spesso dimenticati e negletti dai soloni di tanta inutile carta stampata e di sin troppo frusta salotteria d’accatto che vorrebbe sgarbiatamente esser (e ahinoi spesso funge da) parametro di cultura.
Ordunque: Grignani. Maestro solitario e rigoroso, ricercatore raffinato e metodico della “verità” della forma visiva, della parola visibile e dell’immagine eloquente, il progettista visuale, pittore e fotografo, insomma l’artista (c’intendiamo, ormai sul lessico che propongo, a mio rischio e pericolo, d’essere confutato da insigni accademici?), l’architetto Franco Grignani, nato a Pieve Porto Morone (Pavia) nel 1908, formato ed educato all’arte del progetto presso il politecnico di Torino (1929-33), in anni ruggenti di non proprio primo, tanto sobrio e un po’ cupo, quanto fertile e dialettico razionalismo indigeno, ci ha lasciati nei primi mesi di questo funesto 1999; in silenzio, spegnendosi dopo lunga dignitosamente riserbata sofferenza. Attoniti e confusi dalla dolorosa sequenza di scomparse che ci attanaglia senza tregua negli ultimi tempi, lo ricordiamo con ammirazione reverente e venerazione disciplinata in queste righe, stese di getto, appena appresa la ferale notizia. Dopo aver fatto parte, come pittore, di un tardo secondo quanto fecondo futurismo (di non poco tratto nella città di Gianduja), la strada della ricerca di Grignani aveva incrociato i movimenti delle avanguardie artistiche internazionali, in particolare dell’astrazione europea, sviluppando in lui un sentito intimo interesse per la psicologia della percezione della forma. Esito ne era stata, sin dagli anni cinquanta, la sua dinamica versione di una OpArt ante-litteram (so d’esser anacronistico, ergo non buon storico, così scrivendo), anni prima che questa trovasse fama e nome. La piena padronanza, il perfetto dominio, il magistero elevatissimo delle regole della percezione si esprimeva reiteratamente nei suoi esperiemnti visuali sul movimento virtuale, sulle illusioni e le elusioni ottiche, sulle subpercezioni, sulle distorsioni, sui moirés, sulle dilatazioni, sui flou e così via pingendo, appliacati senza tregua né pausa né cesura, a un universo formal-espressivo che per pigra comodità tassonomico-categoriale siamo usi chiamare e distinguere (a torto, forse) pittura, grafica (editoriale e pubblicitaria), attraverso immagini, trame, segni e parole. Sin dagli anni trenta, Grignani aveva operato nel campo della grafica (dell’architettura dell’informazione, diremmo oggi, e Massimo Vignelli acconsentirebbe), collaborando tra l’altro alla comunicazione d’impresa di Borletti, Breda Nardi, Cremona Nuova, Dompé, Domus, Mondadori, Montecatini, Spi, e Triennale. La sua durevole direzione artistica dell’editoriale Alfieri&Lacroix è, tra tutte, di particolare rilievo, giacché mostra una straordinaria integrazione di riflessivi quanto concisi testi (di suo autoriale pugno) e immagini: scritture d’immagini; meglio: testo che diviene immagine e assieme immagine che si fa testo, anticipando un peculiare scambio attuale. Universalmente noto, il suo trademark per la Lana vergine è paradigmatico esempio del suo approccio al design del segno che si fa significante e significato. È stato, per 26 anni, anche art director di “Pubblicità in Italia”, rivista dedita al visual design promozional-mercantile. Autore di acuti saggi sulle arti visive, Grignani spesso era chiamato a tener conferenze in Europa e negli Usa. Lo volemmo e vedemmo, spiccante tra la folla sul fondo della sala, anche alla pristina presentazione del numero zero di questa rivista; ne avemmo uno spontaneo sentito apprezzamento, un vivo rude incoraggiamento, garbate ma recise critiche, com’era nel suo stile spiccio. Era urtato (chiaccherammo brevemente del più e del meno, subito dopo) da uno slogan circolante con insistenza: “fine della storia” (e delle ideologie e dei valori etc). Slogan stupidino ma d’effetto, per i giornalistucoli cianciaioli e soprattutto per gli intellettuali (salottieri, organici, disorganici, anche da bar e da salotto, fate vobis). Pour épater les bourgeois et les bourgeoises encore; non a caso, slogan d’origine nippo-americana, che fa il paro con “la fine della stampa”, con quel The End of Print, di cui sproloquiano, con osannato successo mondial-globale, ossia ecumenico, sagaci ciarlatani della “grafica contemporanea”, a cui invero corrisponde -a mio avviso- un (inedito ma attuale, effettuale, reale-obiettivo) The Beginning of Reprint. Ci restiamo, comunque, malgré nous, nel nostro “piccolo mondo antico dell’ultimo novecento - che, come ha scritto Mario Tronti in pagine illuminanti delle sue più recenti fatiche per i tipi di Einaudi - va scorto con occhi sobri, come realtà di fatto, dietro la spettacolarità ideologica di questo cosiddetto post-moderno, globale e virtuale. Un ritorno di ottocento ha sconfitto alla fine il nostro secolo […] Diciamo con onestà ciò che è: è un’età di Restaurazione. Ma senza Romanticismo. Anzi, sostanzialmente neoclassica. Un neoclassicismo impudicamente avveniristico”.
Pax tibi, Franco. Nec moriar. “On oi theoì filoùsin apothnéskei néos”, con Menandro. Pace a te, che “néos” eri ancora, con novanta primavere ormai già sulle larghe spalle dal signorile incedere e dall’indimenticabile portamento, di colui a cui si cede naturalmente il passo, per l’alone di rispetto autorevole che trascina seco e aleggia attorno. “Ciuti, ch’al entra el reverendo!” (se non sbaglio -lo ricordo così il verso, dagli anni del liceo, forse con involontari refusi, ché non posso adesso verificare il crepuscolare tuo conterraneo poeta - Hora ruit, e il fatidico The show must go on!, vale anche per noi redattorelli): non eri un “reverendo” nel senso comune e nell’accezione di quei versi ma, certo, un maestro è da riverirsi, almeno.

[cupi bits: Franco Grignani (1908-1999), in “Casabella” (Milano), 667, maggio, p. 80]
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