17.1.04

[1993#02] calligrafia

Detesto la calli–grafia: non vogliatemene troppo, che avete anche la gentilezza di ospitarmi, nonostante le mie opinioni.
Forse è solo un equivoco. È come gran parte dell’arte contemporanea: non la capisco, e non mi interessa, perché non mi dice nulla e non mi muove alcun senso; anzi, la trovo per lo più irritante, perché mi pare che non abbia nulla da dire eppure parli.

Detesto la calli–grafia tanto quanto, confesso, mi interessa la tipo–grafia, le cui etimologiche impronte mi paiono uno straordinario luogo di riflessione sul nostro sempre più complicato presente, ove le arti dei bei tracciamenti eleganti sembrano (mi sbaglierò) solo svenevoli sciocchezze solipsistiche. Sento odor di bricolage, con la calligrafia, quando c’è bisogno di ingegneri. La calligrafia come soddisfazione del tempo libero, insomma, come ricerca del sé e di vie interiori per realizzarsi, non mi interessa. Non equivochiamo: rispetto il desiderio e l’esigenza di chiunque di trovare forme adeguate per esprimersi, anche al di fuori del lavoro, ma le ritengo questioni private. Così come trovo che l’arte dello svolazzo squisito sia parente più che altro della buona cucina, un’arte anch’essa, certo; e se poi è una pratica spirituale, una disciplina misticamente orientata alla ripetizione trascendente del gesto, la lascio a chi ha fede nella liberazione dello spirito. Non è il mio caso: soffro in terra, e vi godo quanto posso.

Non nego, invece, che sia estremamente interessante la questione del disegno delle lettere, il progetto dell’alfabeto, l’architettura dei segni.
Delle tracce insigni della storia della scrittura e della stampa, diciamo il vero, il nostro paese è straordinariamente ricco e dimentico, allo stesso tempo.
E qui, quando nel Bel Paese si inizia il discorso sul progetto dell’alfabeto, la prima cosa che mi viene a mente è sempre Novarese; ma come si può dimenticare che, pressocché sconosciuta in patria, in generale ignota se non a pochi intendenti, l’opera di Aldo Novarese costituisce uno straordinario contributo di ingegno progettuale italiano a quel mondo di severo rigore estetico che è il disegno delle lettere, il tracciamento delle forme dell’alfabeto, l’invenzione dei caratteri ? Arte a pochi riservata, che oggi vede una impetuosa, entusiastica ma anche confusa e spesso dilettantesca rinascita in altre aree del mondo, in particolare di cultura anglo-sassone.
L’Italia vanterebbe, dal canto suo, una tradizione storica di importanza capitale – è forse il caso di rammentarlo? –, di cui resta solo un gigantesco bagliore ammonitore, nella notte del presente. Basti pensare all’altro grande Aldo, ovvero all’importanza per la cultura umanistica dell’officina manuziana, oppure alle imprese bodoniane, destinate a fortune universali, per non citare che due episodi a tutti noti; come ai cultori delle arti del Novecento non suoneranno certo nuovi i nomi di Raffaello Bertieri o di Giovanni Mardersteig.
Questo insistere su Novarese è l’occasione per suggerire qualche sommaria riflessione sullo stato dell’arte di uno dei doni fondamentali della nostra civiltà occidentale: il disegno delle lettere dell’alfabeto. In effetti, a ben considerare la dialettica tra strumenti tecnici concreti e mezzi progettuali astratti, si deve notare come paradossalmente sia bastato poco più di un decennio – l’ultimo trascorso – per fare di Novarese (uomo di raffinate conoscenze e di rara esperienza progettuale, circa la moderna estetica applicata delle lettere) al contempo tanto una specie di superstite di ere paleotecniche, quanto un prezioso custode di quei “segreti dell’arte” che rischiano di andar persi presto, nella situazione attuale di apocalittica fissione di una secolare tradizione, risultato di travolgenti e repentine anche se, in fondo, prevedibili trasformazioni produttive.

Di un fatto, bisogna essere consapevoli: il repertorio storico delle lettere che abbiamo oggi ereditato è cresciuto nei secoli come mezzo di “scrittura artificiale”, in un ambiente di fatto tecnologicamente stabile — la “bottega di Gutenberg” —, sia raccogliendo la sofisticata sapienza di generazioni di incisori di punzoni, sia decantando risposte selettive/adattative alle mutevoli esigenze delle mentalità sociali. Quello di esperire e padroneggiare, attraverso la copia, tale eredità è stato per secoli l’unico sistema di formazione, e probabilmente è ancora quello fondamentale. ”Lettering is a precise art and strictly subject to tradition. – scriveva Arthur Eric Rowton Gill, esprimendo un’opinione che vorremmo poter sottoscrivere anche per l’oggi – The New Art notion, that you can make letters of whatever shape you like, is as foolish as the notion, that you can make houses any shape you like. You can’t, unless you live all by yourself on a desert island”.

Nelle arti applicate, dunque, innovazione non pare possa significare eterodosse, inedite, incessanti novità, lecite in isole deserte: il “nuovo” come pura differenza, come continua diversità, come inesauribile epifania è soltanto un luogo comune, privo di senso, frutto dell’ideologia delle merci e del mercato. In questo ambito di discorso, quale innovazione va invece intesa ogni trasformazione che nel modo più appropriato sia capace di collegare la storia adattativa incorporata in ogni artefatto ai mutamenti dei mezzi/strumenti di produzione, comunque occorrano. Ciò implica un conseguente scarto, una coerente trasmutazione negli strumentari concettivi e ideativi, che storicamente sono più lenti a modificarsi delle machinae, costretti tra i flussi delle mentalità comuni e le casualità degli eventi individuali.

La sfida più difficile ma ineludibile del presente in questo campo sembra essere quella di saper trovar risposte alle proprie domande nel passato: facendo corrispondere mezzi mentali appropriati ai nuovi strumenti, trasformando le idee senza perdere le memorie collettive. Soltanto cercando di scoprire le mutazioni dell’artefatto implicate dal e coerenti con il cambiamento dei mezzi/strumenti, sembra possano liberarsi potenziali realmente innovativi. È proprio questo genere di problema che i progettisti di alfabeti stanno tornando ad affrontare oggi. Riassumendo ai minimi termini (con tutte le approssimazioni che ciò comporta): il “tipo”, nella fase primigenia e di lunga durata, era tridimensionale e pesante; nella seconda fase, il carattere è diventato praticamente bidimensionale e quasi senza peso; oggi, le lettere sono semplicemente emissione luminosa. In questo modo, dal punto di vista teorico, le fondamenta stesse di secoli di disegno degli alfabeti sono sovvertite. Le forme delle lettere della nostra “scrittura artificiale” costituiscono storicamente un ramo ipertrofico dell’albero della “scrittura naturale” nella cultura occidentale. La scrittura naturale, in sé, reclama copie elastiche dei modelli delle lettere e implica connessioni fattuali tra le lettere a formare le parole, con la tendenza a rafforzare le mutue relazioni visive. Mentre invece la scrittura artificiale ha obbligato a copie rigide dei modelli delle lettere, implicando solo connessioni percettive tra le lettere, che stanno alla base della loro unificazione virtuale in parole, per prossimità — sul tema, restano fondamentali le considerazioni di Giovanni Anceschi in Monogrammi e figure, da cui traggo molte delle mie argomentazioni. In altri termini, la calli–grafia (la scrittura naturale par excellence) si basa sulla continuità del tracciamento, rivelatrice di una certa qual vocazione figurativa; mentre la tipo–grafia (ovvero la scrittura artificiale, sin dai tempi di Gutenberg) si fonda sulla fattuale separazione d’impronta della stampa, che dimostra la natura sostanzialmente monogrammatica dell’artefatto che porta il nome di “tipo”.

La rivoluzione copernicana della scrittura virtuale di oggi rappresenta una sfida che può rimettere in gioco tutto. Lo stupefacente trend di perfezionamento attuale nei formati digitali (acquisita la supremazia delle descrizioni matematiche, object–oriented) può consentire il pieno recupero della “sapientia de li antichi”. Vi è di più: la scrittura virtuale permette o, almeno, suggerisce un ripensamento nelle forme del nostro alfabeto (saranno ancora da chiamar tipi?), delle apparenze delle lettere: non essendo più intrinsecamente indispensabile la separazione tra le lettere, il loro disegno non deve essere necessariamente governato solo da un principio monogrammatico; anzi, è consentito (almeno) pensare a una nuova ibridazione, poligrammatica o persino blandamente figurativa che sia. È dunque il caso di riflettere seriamente sul fatto che oggi, dopo secoli (e con strumenti di disegno, tracciamento e controllo estremamente potenti), i progettisti di alfabeti possono nuovamente esser “padroni” dei loro artefatti e dei loro mezzi di produzione, in una dimensione di estrema libertà creativa, se ne avvertono i limiti e sono consapevoli delle coordinate obiettive della situazione. Come per i primi tracciatori di alfabeti tipografici dell’umanesimo – bisogna ormai chiedersi –, gli sforzi dei disegnatori digitali di lettere, nel nostro paese, saranno parte di una grande, nuova rinascenza o di un definitivo oblio della cultura grafica?
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